Una scuola senza scuola. L’intuizione di Nico Garrone

Tre anni fa, nel febbraio del 2009, se ne andava Nico Garrone, critico del quotidiano La Repubblica e attento interprete e conoscitore della scena teatrale contemporanea già a partire dagli anni delle cosiddette “cantine”, di cui fu privilegiato testimone anche grazie ai suoi preziosi video-appunti e documentari che meglio di tanti saggi sono stati in grado di raccontare quella stagione. Poco prima di ammalarsi Garrone, a quasi settant’anni di età, era ancora uno dei critici più attenti e curiosi del panorama capitolino e nazionale, ed era facile incontrarlo nelle sale off come quella del Rialto Santambrogio – che all’epoca dirigevo – con la telecamera in mano, inseguendo il progetto di raccontare quella stagione che si stava condensando nel primo decennio degli anni Duemila, o anni Zero, fatta di nuovi luoghi e nuovi artisti. Non ce ne fu il tempo. Ciò nonostante, dalle pagine del quotidiano Off con cui aveva iniziato a collaborare, Garrone tracciò le linee di una compagine di artisti che secondo lui avevano qualcosa in comune, qualcosa che stava creando uno scarto rispetto alla precedente generazione dei Teatri 90 – così battezzati dal nome di una fortunata rassegna milanese – orientati all’ibridazione dei linguaggi artistici e una deriva estetica fortemente visionaria. Quella che lui chiamò la “non-scuola romana”, invece, era caratterizzata da mezzi poveri, scenografie scarsamente estetizzanti, e da un recupero della teatralità in una chiave imprevista. L’“imprevisto” era una recitazione senza solennità, figlia dell’amplob performativo degli anni precedenti, in cui l’attore era stato pensato più come fatto corporeo che come soggetto psicologico; ma anche la disinvoltura con cui questi artisti erano in grado di distorcere gli schemi della drammaturgia che, pur smontata, tornava con loro ad essere il centro della creazione spettacolare. Gli artisti emergenti erano Lucia Calamaro, Andrea Cosentino, Mirko Feliziani, Daniele Timpano e Antonio Tagliarini, ai quali si aggiungevano i “già affermati” Massimiliano Civica e Eleonora Danco. E come nella più antica non-scuola del Teatro delle Albe la negazione sta ad indicare un rovesciamento della pedanteria della pedagogia istituzionale, similmente l’idea di una non-scuola aveva per Garrone una sfumatura un po’ anarchica e liberatoria: stava ad indicare l’impossibilità per questi artisti di raggrupparsi sotto un manifesto poetico, di sintetizzare ideologie estetiche, di stilare decaloghi teorici come tante volte è accaduto in passato. E in questa impossibilità “genetica” risiedeva l’aspetto più nuovo di questa scena che si andava coagulando, di cui comunque Garrone non rinunciò a cercare una sintesi. La individuò nella sigla I.C.C.P. – iconoclasti, comici, concettuali, poetici – che dal suo punto di vista erano i tratti salienti di questa nuova ondata teatrale, che recuperava la ricerca ad una dimensione comica, persino ludica, senza però rinunciare alla poesia. E soprattutto, rigettando qualunque forma di monumentalità. (Oggi, paradossalmente, l’idea di non-monumentalità sta diventando un concetto chiave anche nel dibattito critico attorno alle arti visive, la cui frizione col teatro aveva invece prodotto sui palcoscenici della ricerca oggetti con un tasso decisamente alto di “solennità”).
L’anti-narrazione di Timpano, che ripensa e prende in giro un filone già stanco a metà anni Duemila come il teatro civile, sviscerando l’idea di identità nazionale; quella di Cosentino, dai finali che non finiscono mai, che smonta i linguaggi della comunicazione visuale con i mezzi poveri del teatro; il racconto onirico di Feliziani; quello performativo e anti-pop di Tagliarini; le drammaturgie debordanti e autorali della Calamaro. Sono questi gli elementi della non-scuola, che trova nella Roma teatrale senza luoghi e maestri di riferimento, dove a ogni seriosa costruzione concettuale fa seguito una risata tra i denti, il terreno più adatto per crescere e trovare un suo pubblico. Un panorama che Garrone, sulle pagine di Off, descriveva così: “attori, autori e registi tutti più o meno passati per il Rialto e legati da affinità artistiche e anagrafiche: età tra i trenta e i quaranta, percorsi zigzaganti e diversi, raramente accademici o regolari, uno spiccato senso dell’umorismo, l’intelligenza non priva di visceralità, la tendenza a scompaginare le tessere del racconto, a praticare un’affabulazione non lineare, ad usare registri di recitazione, dialetti e codici teatrali in maniera originale”. Ma, come il critico di Repubblica si accorge ben presto, questa cifra anti-stilistica non è esclusivo appannaggio della Capitale.
Nel 2008 Garrone propose a Simone Carella – suo “complice” dai tempi del Beat 72 – di organizzare una rassegna della non-scuola al Teatro Colosseo. Con l’idea di ampliarla, inserendo tutte quelle realtà non romane che sembravano in linea con la cifra della non-scuola. Per discuterne chiamò anche me, in quanto animatore del Rialto, e Attilio Scarpellini. La rassegna che ne sarebbe dovuta scaturire, e che Garrone non fece in tempo a creare, abbracciava un panorama variegato ma in grado di affrescare un pezzo importante della scena contemporanea, che è stato uno dei tratti salienti del decennio scorso e che oggi, a distanza di pochi anni, ci appare in taluni casi un fenomeno in via di consolidamento. Un primo sguardo era indirizzato alla Toscana – ai cui comici Nico Garrone aveva dedicato un bel libro – dove si muoveva un attore lunare e allucinato come Gaetano Ventriglia, una giovane compagnia dal taglio concettuale ma estremamente comico come il Teatro Sotterraneo, e le surreali indagini sul quotidiano de Gli Omini. Dalla Puglia veniva una formazione allora agli esordi come Fibre Parallele e il pierrottesco Roberto Corradino. Dal nord-est la comicità corrosiva e arrabbiata dei Babilonia Teatri. Dalla Romagna la vena surreale e a volte onirica dei Menoventi. Mentre a Roma, nel frattempo, il lavoro di Tagliarini si andava trasformando nel sodalizio con Daria Deflorian.
Forse non tutte le parabole artistiche individuate in quell’occasione hanno proseguito nel tracciato che Garrone aveva prefigurato, e in diversi casi gli artisti citati hanno avuto gradi diversi di consolidamento. Ma nonostante ciò, il panorama disegnato da quella in quella rassegna mai realizzata rappresenta indubbiamente una delle ossature del teatro degli anni Zero. Sicuramente con qualche assenza casuale, dettata dalla contingenza e dalla parzialità di un’occasione come quella di una rassegna: ad esempio i toscani Sacchi di Sabbia, di cui Garrone apprezzava il lavoro, o i romagnoli Quotidiana.com, che non ebbe tempo di conoscere e che sarebbero stati certamente nelle sue corde. Per altro ad un conoscitore ed estimatore della visione a teatro, come era Nico, non sfuggiva l’importanza dell’altra ossatura della scena contemporanea di quel decennio: quella dei Muta Imago, dei Santasangre, dei Pathosformel, a cui ipotizzava di dedicare una rassegna parallela.
Nell’analisi di Garrone, che si soffermava sugli aspetti decostruzionisti di questa scena, si può rintracciare un’estrema estensione delle teorie postmoderniste, di cui però il critico cercava soprattutto la declinazione non seriosa, il punto di contatto con una comicità dal sapore antico, artigianale, e le vertigini della poesia (quest’ultima anche nel teatro visivo). Tutti elementi che oggi sono alla base non solo di un ripensamento di quelle teorie, ma sono anche il sale di una stagione teatrale tra le più variegate e plurali della storia del nostro paese.

[da Quaderni del Teatro di Roma n°3 – gennaio/febbraio 2012]

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