Lontani da casa per cercare sé stessi. «4000 miglia» di Amy Herzog

ph Alice Vacondio

Un ragazzo attraversa l’America in bici per raggiungere sua nonna a New York. Comincia così «4.000 miglia», il testo della drammaturga statunitense Amy Herzog portato in scena da Angela Ruozzi e prodotto da Mamimò assieme a ERT, con la traduzione di Monica Capuani. E va detto subito che siamo di fronte a una contemporanea well made play, un testo coinciso e avvincente, che si svolge tutto nella casa di Vera, la nonna novantenne interpretata da Lucia Zotti, e che intreccia destini, sguardi sul mondo e desideri in una prospettiva intergenerazionale. Già, perché Vera è una comunista d’altri tempi mentre Leo, suo nipote, un giovane progressista del XXI secolo, ecologista, forse woke, ma completamente a digiuno di teorie politiche novecentesche. A portarlo a New York non è il genuino desiderio di andare a trovare l’anziana nonna, ma una fuga doppia, tripla, dal rapporto conflittuale con la madre, da un “casino” combinato con la sorella adottiva, baciata per sbaglio sotto effetto di droghe (ma forse amata in segreto) e il lutto per un amico morto lungo il viaggio, in bici come lui, falciato da un bizzarro incidente automobilistico. Leo – interpretato da Alessio Zirulia – e Vera si intendono su molte cose, in realtà, pur di fatto non sopportandosi, un po’ per l’irrequietezza di lui e un po’ per la solitudine di lei, divenuta oramai un’abitudine interrotta solo dal rapporto con una petulante vicina, con cui Vera condivide un passato di militante ma che, in fondo, considera una rompiscatole. Chiudono il quadro dell’intreccio l’ex fidanzata di Leo (Lorena Nacchia), con cui lui vorrebbe ricucire ma di cui non è in grado di interpretare le inquietudini, e una ragazza incontrata per caso una sera (Annabella Lu), asiatica come la sorella adottiva, con cui Leo ha un flirt che finisce male perché lei, figlia di cinesi scappati dal comunismo, ragazza ricca e alla moda che è convita che diventerà presto “qualcuno”, entra in crisi quando scopre di trovarsi a casa di una “comunista”.

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Aspettando Beckett. Il “Godot” di Terzopoulos con Vetrano-Randisi

ph Johanna Weber

È un “Aspettando Godot” simbolista e livido, quello che Thodoros Terzopoulos ha realizzato a settant’anni dalla prima parigina del classico beckettiano (gennaio 1953), divenuto a tutti gli effetti un classico del Novecento per la sua reinvenzione linguistica e per la capacità di forgiare un immaginario che è divenuto a tutti gli effetti tra i più icastici e riconoscibili di quella stagione. Il regista greco non è nuovo al teatro di Samuel Beckett e, per il più famoso dei testi del nobel irlandese sceglie di affidarsi ad una macchina scenotecnica allo stesso tempo semplice e imponente, che occupa per intero la scena e ingloba letteralmente i corpi degli attori. Una scatola quadripartita, che può aprirsi ora sopra ora sotto, contenendo le scene dei due atti dello spettacolo, o assumere la forma di una croce, simbolismo principale a cui si affida Terzopoulos e che finisce per sostituire il salice piangente del testo beckettiano, quello al quale Vladimiro ed Estragone vorrebbero impiccarsi. L’altro pilastro dell’operazione è la scelta di affidarsi a una compagine di attori molto solida, a partire dai protagonisti Didi e Gogo, affidati a due maestri indiscussi del teatro italiano, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, con Paolo Musio, Giulio Germano Cervi e Rocco Ancarola ad incarnare Pozzo, Lucky e il ragazzino messaggero.

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Riempire il vuoto siderale. “Fraternité” di Caroline Guiela Nguyen

ph Christophe Raynaud de Lage

Caroline Guiela Nguyen prova a fare i conti con il senso di profonda precarietà del nostro presente attraverso la chiave della distopia, portando direttamente in scena uno dei paradigmi narrativi di cui siamo maggiormente intrisi in un epoca scossa dai cambiamenti climatici, dal tramonto dei grandi racconti politici e dall’incapacità di immaginare un futuro che sia in grado di migliorare e riscattare il presente: l’apocalisse. Il suo “racconto fantastico” si intitola programmaticamente “Fraternité”, poiché di fronte all’abisso che investe l’umanità nella pièce l’unico antidoto è proprio la fratellanza tra gli esseri umani. “Fraternité” è il terzo e meno considerato dei tre principi che formavano il motto rivoluzionario francese: mentre sulla libertà e sull’uguaglianza, su quale dei due principi dovesse prevalere, si è consumato gran parte dello scontro politico degli ultimi due secoli, il sentimento di fratellanza tra le persone è rimasto un concetto quasi astratto. Ma di fronte all’abisso che può creare una situazione estrema l’unico porto sicuro restano le relazioni con gli altri. E sono proprio le relazioni umane, la loro cesura improvvisa, il cuore dell’innesco narrativo di “Fraternité”: un’eclisse ha fatto scomparire nel nulla circa la metà della popolazione mondiale, il che significa che praticamente chiunque nel mondo ha subito una sorta di lutto improvviso. Ma chi è scomparso non è morto, si trova forse in un’altra regione dello spazio tempo, da qualche parte insondabile dell’universo, e per comunicare con gli scomparsi le autorità hanno allestito delle cabine dove è possibile registrare messaggi di novanta secondo che saranno spediti a distanza siderale come un moderno messaggio nella bottiglia, che forse raggiungerà il suo destinatario, o forse no.

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“Top girls” e il modello maschile del potere. Monica Nappo porta in scena Caryl Churchill

“Top girls”, l’opera di Caryll Churchill che Monica Nappo ha portato in scena al Teatro Due di Parma, è un testo che ha più di quarant’anni ma rimane dirompente e affascinante tutt’ora, un’opera che riflette sul rapporto tra donne e potere e sulle scelte di emancipazione e le contraddizioni che comportano. La vicenda è ambientata negli anni Ottanta, in piena ascesa della prima donna alla guida del governo inglese, ovvero la Tatcher, e ha un andamento profondamente stratificato, a volte simbolico, ma senza mai risultare indecifrabile. Il primo atto, dalle tinte oniriche, vede la protagonista Marlene festeggiare la propria promozione alla direzione dell’agenzia interinale “Top Girls” al ristorante, assieme a figure storiche o mitologiche – dalla Papessa Giovanna alla poetessa e concubina giapponese del XIII secolo Lady Nijo – che festeggiano assieme a lei. Le sei donne condividono aneddoti e battute, in un’atmosfera di cameratismo molto “maschile”, sorseggiando liquori e facendo battute, ma raccontando nel contempo aneddoti di vita che toccano questioni molteplici, spesso legate al dominio maschile, che fanno emergere le strategie di adattamento che hanno permesso loro, in quanto donne, di ritagliarsi una porzione di privilegio. La differenza di prospettiva storica, i diversi valori dei tempi in cui hanno vissuto, fa sì che a volte una donna non capisca l’altra: Griselda, contadina sposata a un nobile, ha vissuto il trauma di essere privata dei figli solo per testare la fedeltà al marito, e alle altre sembra assurdo che alla fine del racconto finisca per giustificare la logica di lui. Il racconto del primo rapporto sessuale di Lady Nijo con l’imperatore viene visto come uno stupro dalle commensali, mentre per la concubina è il coronamento di un attesa. È chiaro che ognuna di loro ha messo in campo strategie incomprensibili alle altre per poter essere ciò che è stata. E ciò di cui si sono dovute privare, o che hanno sofferto, è la moneta con cui hanno acquisito il proprio status, la propria condizione.

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Viaggio per “nessun posto”. «Kakuma» di Laura Sicignano

ph F. Pitto

Andare a Kakuma significa, letteralmente, andare “in nessun posto”, perché in swahili la parola con cui viene chiamato il più grande campo profughi dell’Africa subsahariana, situato nel nord del Kenya, significa letteralmente nowhere, nessun posto. Un posto fuori dalle mappe, situato in una zona afflitta dalla siccità, lontano da tutto – ci vanno solo gli operatori umanitari e ovviamente i profughi che scappano da guerre e carestie e vengono concentrati qui, ma che a differenza dei primi dal campo non possono uscire. Laura Sicignano ha compiuto un viaggio a Kakuma e ha deciso di restituire questa esperienza in forma di spettacolo teatrale, «Kakuma. Fishing in the desert», che ha debuttato al Teatro Nazionale di Genova. A metà tra il teatro documentario e il diario di viaggio, «Kakuma» si struttura come un lungo racconto affidato all’attrice Irene Serini, ma non è un semplice monologo, poiché le parole sono in dialogo con la presenza della danzatrice Susannah Iheme e di una serie di video che si stagliano sulla scena, semplice e scarna, in linea con un’atmosfera del racconto che si vuole tutta concentrata sull’esperienza di viaggio e lo shock culturale che comporta constatare sulla pelle degli altri il proprio status di privilegiati occidentali e bianchi. La parola che designa i bianchi, si racconta all’inizio dello spettacolo, è oggi sinonimo di “ricco” e di “signore”, e si distanza di una sola sillaba dalla parola che in swahili vuol dire “Dio”.

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Il dolore dei viventi. “La stoffa dei sogni” di Civica / Pirozzi

ph Duccio Burberi

Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Siamo soliti tradurre in questo modo il celebre verso che Prospero dice alla fine de “La Tempesta”, capolavoro shakespeariano e uno degli ultimi lavori del drammaturgo inglese, omaggio al teatro e secondo molti suo testamento artistico. We are such stuff as dreams are made on, recita l’originale inglese. L’intuizione di tradurre quelle parole con un tono più colloquiale – ma non meno poetico – fu di Eduardo, che nella sua versione in napoletano della Tempesta fa dire al vecchio mago: “Nuje simmo fatte cu la stoffa de li suonne”. Stuff, d’altronde, deriva dal francese estoffe, tessuto, e nell’inglese odierno è a sua volta una parola colloquiale – e per rendere appieno questo intreccio, più che la nostra bella lingua letteraria, ci vuole una lingua davvero parlata: il napoletano eduardiano o anche più semplicemente la lingua del teatro. Se siamo fatti con la stoffa dei sogni, la nostra esistenza non soltanto è composta da quella materia, ma essa, al pari del tessuto, può essere tagliata e cucita, adattata per farne vestiti da indossare e poi dismettere (come avviene in teatro per le maschere). Abiti – parola che ci parla tanto di stoffa materiale che spirituale – che dunque possiamo scegliere di mettere, anche se poi quasi mai siamo in grado di gestire le conseguenze di quello che scegliamo.

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Un viaggio picaresco nella memoria. “Via del Popolo” di Saverio La Ruina

In alcuni casi (spesso nei migliori) il palcoscenico è un luogo di fantasmi. Un luogo che si popola delle ombre del passato, delle ossessioni e del senso profondo delle relazioni – umane, sociali, individuali, collettive – che siamo riusciti a costruire e che sono la trama che sorreggono la nostra porzione di mondo. Il rischio che comporta addentrarsi tra i fantasmi non è una shakespeariana perdita del sonno, e nemmeno quello di restare terrorizzati, quanto – più prosaicamente – quello di finire in un ingorgo di nostalgia, malta insidiosa con cui i racconti finiscono per essere scivolosi, personalistici, rassicuranti. È con la consueta grazie della sua recitazione e un gusto garbato dell’ironia che Saverio La Ruina riesce a evitare l’insidia dei ricordi personali e ad allestirli poeticamente sulla scena di “Via del Popolo”, ad uso e consumo di un pubblico (come quello delle repliche romane a cui ho assistito) che forse non ha mai visto Castrovillari, la città dove si dipana il racconto e dove si trova la via evocata nel titolo, e sicuramente non l’ha mai vista negli anni Sessanta e Settanta, l’epoca in cui la vicenda è ambientata.

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Facciamo qualcosa di finto. “A casa, bambola!” dei Quotidiana

ph Luca Del Pia

Entrando ci si trova a cospetto di un’uomo nudo, di spalle, parzialmente visibile perché un po’ dentro e po’ fuori della cortina argentata che riempie la scena assieme a un tavolo e a due sedie. “Un culo” – verrebbe da dire parafrasando una drammaturgia di Fabio Massimo Franceschelli di qualche anno fa – un nudo che parzialmente intimidisce chi deve ancora prendere posto, perché lo spettacolo comincia così, in media res, con il corpo dell’attore (o almeno una parte) già sulla scena. Presumibilmente chi è venuto al Teatro delle Moline di Bologna per vedere un adattamento da Ibsen sarà rimasto deluso da “A casa, bambola!” dei Quotidianacom – ovvero Paola Vannoni e Roberto Scappin – perché Ibsen c’è sì, ma in forma fantasmatica, evenemenziale, ridotto e distillato nella reazione che il pubblico nordico ebbe nel 1879 all’apparizione del capolavoro ibseniano: ovvero, il “gelo” difronte al gesto inaudito dell’abbandono del tetto coniugale da parte di Nora. Ma in fondo è questo che andrebbe fatto con i classici, che per la stratificazione di significati e immaginario che si portano appresso andrebbero scandagliati a fondo, rispettandone il testo, oppure semplicemente presi come dispositivo tematico, come prisma interpretativo, lasciando la vicenda sullo sfondo (le riattualizzazioni, se non sono riscritture profonde, non funzionano quasi mai). Questo ultimo lavoro del duo riminese sceglie la seconda opzione, proponendo un lavoro attorno allo “scandalo” della donna che disinnesca e infrange il proprio ruolo sociale, un spettacolo che e si dipana secondo lo stilema consolidato della compagnia: chiacchiere, digressioni, slittamenti semantici portati avanti in un serrato dialogo tra due figure stilizzate, che frulla riflessioni acute e chiacchiericcio quotidiano con un pizzico di ironia e provocazione. Nora e Torvald non sono che pretesti, Ibsen stesso un personaggio tra gli altri di questa “commedia” della ciarla e della riflessione: e d’altronde il drammaturgo norvegese per primo rilevò come il pubblico, di fronte al suo testo, si spaccò non tanto per questioni estetiche quanto “per il problema morale che pone”.

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Scrivi solo dieci righe. “Lemnos” di Bluemotion

ph Federico Pitto

Dieci righe per esprimere un abisso. Quello della reclusione, della perdita degli affetti, dell’umiliazione. Dieci righe era il massimo concesso ai detenuti politici greci, mandati al confino su isole remote durante la guerra civile che si protrasse fino al 1949, ben oltre la fine della seconda guerra mondiale, e vide la sistematica persecuzione di comunisti, partigiani e di gente qualunque semplicemente sospettata di esserlo. Tra questi molti artisti, come il poeta Ghiannis Ritsos, che a questa limitazione del contatto con il mondo dedicò una poesia, un esortazione, un monito: scrivi solo dieci righe. Si racconta che Ritsos, poeta simbolo della resistenza ellenica, avesse sviluppato durante la prigionia una qualità da amanuense bizantino, riuscendo a condensare nello spazio imposto delle vere e proprie missive. Rimpicciolire la forma per dare spazio alla sostanza. Un altro gesto di resistenza.

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La mente è un buco nero. “Rimbambimenti” di Andrea Cosentino

Nel giorno in cui ricorrevano i cento anni dalla nascita di Kurt Vonnegut, l’11 novembre 2022, data carica di ricorrenze numeriche, Andrea Cosentino metteva in scena “Rimbambimenti”, uno spettacolo sul tempo che, oramai lo sappiamo, non esiste, o non è detto che esita come noi lo pensiamo. Potrebbe essere l’incipit di un racconto, lo è di questa recensione, e per un motivo preciso. Vonnegut è il padre di Billy Pilgrim, il protagonista di “Mattatoio n°5” che possiede la facoltà di saltare nel tempo, ma lo fa senza una precisa volontà, finendo per addentrarsi come un vagabondo in un labirinto temporale, fatto di vicoli ciechi e luoghi ritornanti. D’altronde già agli inizi degli anni Sessanta, con Ballard, la fantascienza più letteraria e postmoderna aveva ribaltato il suo campo di indagine, passando dall’esplorazione dell’outer space, lo spazio profondo, all’inner space, lo spazio interiore, la psiche, la foresta di simboli e mistero che è la mente umana. Andrea Cosentino convoca invece sul palco un’altra celebre immagine fantascientifica, di origine cinematografica più che letteraria, ma non per questo meno gravida di significati e simbologia: Hal, il computer impazzito di “2001 Odissea nello spazio”, che mentre viene disattivato dall’astronauta David regredisce a una sorta di stadio infantile – hanno un’infanzia le intelligenze artificiali? – e canta, in modo sempre più distorto, giro giro tondo. Se Billy Pilgrim è un reduce della seconda guerra mondiale e il suo saltare nel tempo presumibilmente allude alla mente in frantumi dei soldati che vivono lo stress post-traumatico della guerra, la regressione di Hal apre a una più generale riflessione sul tempo e il senso stesso della vita, la sua connessione con l’universo, che si materializzerà nella lunga lisergica sequenza finale del film.

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