Telemomò. Intervista ad Andrea Cosentino

cosentino-e28093-telemomoIn una lunga chiacchierata con Andrea Cosentino, uno dei nomi più rappresentativi della scena indipendente romana e nazionale, abbiamo ricostruito il percorso di spettacoli e di pensiero che hanno portato questo artista a confrontarsi con il linguaggio della televisione e a dare vita a un progetto “fuori formato” come Telemomò. A partire da «Angelica» fino al progetto di una finta festa popolare ripresa da una finta Tv locale ne «La festa del Paparacchio» (ma con solide radici nei lavori precedenti), il teatro di Andrea Cosentino costituisce una delle ricerche più feconde sui temi della finzione, del rapporto con il teatro e di quello con la realtà, che non è più un oggetto “puro”, ma è in tutto e per tutto frutto di una costruzione precedente, di un racconto di un montaggio.

1. In «Angelica» hai sperimentato per la prima volta l’idea di un montaggio/smontaggio del linguaggio televisivo. Spettacolo che viene cronologicamente dopo «L’Asino albino», ma che nasce dagli stessi materiali di lavoro, tanto è vero che li definisci un “dittico”. Ci racconti la genesi di questo lavoro?

Molto semplicemente all’inizio pensavo che sarebbero stati un unico spettacolo. Il fatto è che non mi piace lavorare su un solo spunto quando progetto qualcosa, ne metto sempre insieme almeno due. Per me è quasi una scelta di metodo, che ricorda un po’ quella frase di Lautréamont adottata dai surrealisti dell’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio, anche se a me non interessa sprofondare nell’inconscio quanto zigzagare nella complessità. Ma insomma, all’inizio pensavo di lavorare unendo lo spunto della gita all’Asinara con quello di una scena di morte recitata a ripetizione da un’attrice di fiction all’interno di un’abitazione popolare romana. Poi è accaduto che ciascuno di questi due temi mi si è a sua volta ampliato tanto da doverlo sviluppare in maniera autonoma. Tuttavia mi piace pensarli come un dittico, come qualcosa che va visto in modo unitario, uno di seguito all’altro.

2. Un tema che sembra unirli è quello della morte, però affrontato in modo diverso.

Io dichiaro che «L’Asino albino» è uno spettacolo sul tempo che passa, «Angelica» è un lavoro sulla morte. Evidentemente c’è una connessione. Poi forse il primo è uno spettacolo più caldo, più emozionale, mentre il secondo è più complesso – ma questa è un’osservazione che mi viene fatta da chi li vede, più che essere una mia sensazione.  Ambedue hanno al centro dello spettacolo la morte nella sua irrappresentabilità. Una morte vera, quella dell’asino albino, nel primo; una morte finta, quella di Angelica, nel secondo. Ne «L’Asino albino» la morte è annunciata fin dall’inizio, anche se poi la faccio vedere – o meglio, intravedere, perché sono in controluce – solo alla fine. E in questo finale continuamente annunciato e rimandato, che apre e chiude il cerchio, si riversano i mille rivoli di cui è composto lo spettacolo. In «Angelica», invece, c’è un’attrice e i suoi tentativi di raggiungere una rappresentazione convincente della morte. In un certo senso, è come se «Angelica» cominciasse dove finisce «L’Asino albino». Allo stesso tempo però i due spettacoli hanno una costruzione simile: sono la messa in scena ripetuta di un finale. Ma è qualcosa di cui mi sono reso  conto davvero solamente a posteriori.

3. Prendiamoli uno per uno. «L’Asino albino» parla anche della storia di un ex brigatista, detenuto nel carcere dell’Asinara.

Sì, ma non con l’ottica del narratore civile, che va a caccia delle storie nascoste o dimenticate ma di palese rilevanza sociale, come potrebbe essere il caso del terrorismo degli anni Settanta. Io piuttosto rivendico la casualità che c’è dietro lo spunto per i miei spettacoli: in questo caso io che sono andato da turista in un posto come l’isola dell’Asinara, con il risultato di confrontarmi con le rovine di una storia che non conoscevo se non sommariamente e imbattermi in un asinello morto stecchito sotto un cespuglio, a cercare un ultimo impossibile riparo da un sole feroce. La storia dell’ex brigatista Ramataz è il racconto di un passato letteralmente “chiuso” che si contrappone al presente inarticolato dei turisti balneari. Ma è una contrapposizione strutturale e non di valori. Quanto più nella vita col passare degli anni mi accorgo di diventare sempre più moralista, tanto più sulla scena mi infastidisce chi pretende di fare la morale. Con la carrellata di turisti, che sono personaggi-macchietta senza una profondità, non intendo prendere in giro “la massa” più di quanto invece non prenda in giro me stesso. Molti dei loro tic sono i miei: vedi il romano che fuma in continuazione. È una riduzione teatral-macchiettistica, quella dei miei personaggi, che vuole essere il doppio di una deriva sociale e culturale che io osservo attorno a me ma dalla quale non pretendo affatto di tirarmi fuori. Questa cosa in «Angelica» la tematizzo tirando in ballo Pasolini. In quel caso parlo esplicitamente di una mutazione antropologica della quale io faccio pienamente parte.


5. Ed è qui  che, nel tuo percorso, incontri il montaggio, cioè il linguaggio audiovisivo, e quello della tv nello specifico.

In «Angelica» la riflessione sul montaggio è parte strutturale dello spettacolo. E il discorso sulla morte ha a che vedere con la finzione, una morte recitata che diventa tanto più grottesca quanto più viene ripetuta per ottenere un risultato “credibile”. E alla fine l’incapacità-impossibilità di farsi – e dunque ricreare – una rappresentazione soggettiva della morte da parte dell’attrice si risolve con la necessità da parte del regista di spezzare il corpo stesso di Angelica in dettagli, per risolvere la questione, appunto, con il montaggio. Il montaggio come arma a doppio taglio: strumento linguistico che ci offre il racconto di un tutto dove non ci sono che parti.
In questo caso io gioco a portare alle estreme conseguenze, fino a rovesciarlo, un ragionamento  che Pasolini fa in un piccolo saggio dove si discetta di Cinema e Morte. Lui parla della morte come momento di verità, possibilità estrema di rappresentazione del vivente. Io parlo dell’irrappresentabilità della morte nella nostra società, di un vero e proprio rimosso collettivo, e dunque in qualche modo di un’attuale impossibilità di verità.
Pasolini parlava anche del cinema come linguaggio della realtà – era una posizione molto criticata a volte anche con sufficienza dai semiologi dell’epoca – ma Pasolini aveva in mente il cinema neorealista o il grande cinema d’autore a lui contemporaneo. Se ancora trenta anni fa poteva essere plausibile affermare che la realtà ha trovato il suo mezzo di espressione nel linguaggio cinematografico, oggi è evidente che la televisione si è sovrapposta alla realtà modellandola attraverso la miseria del suo linguaggio standardizzato. Quello che faccio in Angelica è sposare la tesi di Pasolini, spostandola però sul linguaggio povero della fiction televisiva. E lo faccio per tentare di parlare di quella mutazione antropologica che Pasolini preconizzava negli anni Settanta, ma che ora è compiuta e ci riguarda tutti. È talmente compiuta che non ne siamo neanche più davvero coscienti, al punto che continuiamo a dibattere come se nulla fosse accaduto di memoria e presente, tradizione e modernità, come se fossimo ancora dentro un solco di continuità con il nostro passato, le nostre radici e quant’altro.
Tornando alla televisione – a quella che è poi diventata Telemomò – quello che tento di fare è di smontare il montaggio, per evidenziare comicamente le ferite che infligge sul corpo della realtà per organizzarla. Pur di organizzarla. Io uso bambole di plastica, parrucche, giocattoli e pezzi di corpo che faccio sporgere attraverso lo schermo bucato di un vecchio televisore. Eppure funziona. Il linguaggio crea la realtà, indipendentemente dalla sua consistenza, ecco. Quello che mi diverte è smontare il giocattolo, ma senza smettere di farlo funzionare.
Questo è molto importante: devi appassionarti a un racconto e contemporaneamente non poter fare a meno di vederne i meccanismi in funzione e accorgerti che i protagonisti, nei quali pure non smetti di identificarti, sono pezzi di plastica. Al contempo il montaggio televisivo viene disarticolato e dilatato comicamente dai tempi morti, ma vivi, nei quali raccolgo e ripongo bambole o indosso parrucche tra una inquadratura e la successiva. È una di quelle operazioni che puoi fare solo in scena. E non perché il teatro possieda di per sé un linguaggio migliore o più sofisticato della televisione o del cinema, ma proprio per la sua resistenza a farsi compiutamente linguaggio, a esaurirsi in comunicazione. In teatro per lo meno si è vivi, appunto. Comunque vivi.

6. Eppure il tuo lavoro compie una rottura anche con linguaggio teatrale, che passa per il tuo mondo di stare in scena, di non recitare.

Non è tanto un non recitare, anzi talvolta recito manifestamente e grottescamente. Piuttosto rifiuto la recitazione come pretesa di restituzione di una verità del personaggio, come “calco innocente” della realtà. Nei miei spettacoli distorco voci e faccio macchiette o al contrario parlo e spiego. In effetti faccio le due cose allo stesso tempo, sono la marionetta e il marionettista, e queste due funzioni sono sempre dichiarate e giocate a vista, addirittura si infilano nella struttura drammaturgica degli spettacoli. Perché anche nel “non recitare” c’è un rischio.
Prendi la narrazione teatrale, a cui spesso il mio lavoro viene accostato. A un certo punto la gente andava ad ascoltare i narratori perché sembravano più veri di quanto potesse esserlo un “mattatore” in scena. Ma a mio avviso anche lì si nasconde una mistificazione. Se non altro perché non sei al livello di chi ti ascolta, il quale non ha neanche il permesso di replicare. Simuli una familiarità che non concedi. La mia soluzione, che è quasi una disciplina che mi sforzo di seguire, consiste nel non fingere di non fingere. Questa è anche la “verità” del mio lavoro. Sembra un paradosso vuoto, ma se ci pensi è la cosa più onesta che si possa fare da un palco. O meglio, è la prescrizione di ciò che non si deve fare.


7. Nel tuo caso è stato utilizzato anche il termine anti-narrazione. Quanto conta nel tuo lavoro questo “mettere in piazza” i meccanismi, questo stare e non stare nell’oggetto del racconto?

Non posso chiamarmi completamente fuori dal fenomeno della narrazione, perché io in qualche modo racconto. Solo che invece di raccontare storie a sfondo sociale, io racconto spettacoli. Non avendo storie da raccontare, e non essendo in grado di rapportarmi con la Storia con la maiuscola, faccio spettacoli in cui racconto spettacoli. In questo paradosso risiede la problematicità del mio lavoro, e anche, credo, il suo carattere specifico. Ultimamente mi diverte dire che faccio dell’avanspettacolo. Semanticamente, l’avanspettacolo è qualcosa che viene prima dello spettacolo. Anche i miei lavori sono qualcosa che viene prima degli spettacoli veri e propri, che come forma spettacolo compiuta non vedranno mai la luce. Hanno piuttosto a che vedere con la progettazione e allo stesso tempo il dissezionamento di quegli stessi spettacoli ipotetici. Questo per me è un modo per occuparmi – e rendere in qualche misura partecipe chi mi guarda – del processo di produzione delle storie e delle rappresentazioni, e credo che in questo momento storico ciò sia abbastanza sensato.
Un buon esempio del mio rapporto ambivalente con la narrazione è la maschera della vecchietta, che appare in «Angelica» e in molti altri miei spettacoli. La vecchietta, col suo pseudo-dialetto, è l’alter ego che mi permette di raccontare storie, di innescare il racconto delle vicende vere e proprie. Ma allo stesso tempo mi permette di ricollegarmi – demistificandola – a un’idea di autenticità precedente alla mutazione antropologica di cui parlava Pasolini. A un’autenticità che io devo considerare irrimediabilmente perduta.
L’archetipo per la mia generazione credo sia stata la pubblicità del Mulino Bianco: nonostante la loro patinata risibilità, non potevi impedirti di provare qualcosa di simile alla nostalgia guardando quelle pubblicità. Ma la realtà dei fatti è che io non ho mai vissuto in un mondo rurale, e se penso alla mia infanzia rispetto a oggi posso forse ricordarmi di un po’ più di verde attorno a casa, ma nulla di più. Allora mi rendo conto che la nostalgia verso il mondo rurale, nella forma in cui la vivo, è già una rappresentazione di rappresentazioni. Il Mulino Bianco costruiva un’arcadia rurale del tutto diversa dalla dura realtà della vita contadina. Capirlo è rendersi conto che la fotografia di una fotografia potrà anche essere uguale all’originale, ma tra il fotografo e il soggetto fotografato è andata perduta qualunque vicinanza.
In questo senso io e il mio lavoro apparteniamo al post-moderno (qualunque cosa voglia dire ora questo termine già invecchiato). Forse addirittura il mio rapporto con la contemporaneità è più simile a quello che ha la scena sperimentale dagli anni Novanta in poi, quella dei post-moderni o post-organici, piuttosto che alla sensibilità dei narratori. Tuttavia – come ha sottolineato Attilio Scarpellini – i miei strumenti sono altri, non sono contigui alla contemporaneità di cui voglio parlare, ma appartengono alla sfera teatrale: neanche al suo linguaggio, ma proprio al suo artigianato.

8. L’avanspettacolo ti ha portato allo spettacolo successivo, «Antò le Momò». Anche qui c’è una morte, un racconto di uno spettacolo, un dissezionamento. Ce ne parli?

«Antò» è tornare alla libertà dei miei inizi – quando lavoravo molto sull’improvvisazione e sul frammento – con la maturità di un percorso da drammaturgo. In realtà «Antò le momò» nasce come una sorta di “best of” in evoluzione, non uno spettacolo compiuto come dicevo, ma un contenitore aperto, poco più che un titolo – che è poi il titolo di un mio lavoro di parecchi anni fa – cui ho aggiunto un sottotitolo che vuol essere una dichiarazione di intenti: avanspettacolo della crudeltà. Cioè il tentativo di unire la leggerezza della vecchia tradizione comica dell’avanspettacolo con la profondità metafisica e per nulla auto-indulgente delle visioni artaudiane. Ma anche avanspettacolo in un senso ulteriore a quello di cui sopra, quasi un libretto di istruzioni per l’uso della società dello spettacolo. È un lavoro col quale conto di girare a lungo, calibrandolo ogni volta a seconda dei contesti e dell’ispirazione, e che magari tra tre anni sarà completamente diverso da quel che è adesso, e che già adesso contiene pezzi nuovi e pezzi vecchi, addirittura precedenti al dittico. Uno fra tutti: la telenovela raccontata dalla solita vecchietta utilizzando le barbie come si trattasse di guarattelle napoletane, che è poi l’antenato di Telemomò.

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9. «Antò le Momò» viene dopo il dittico, anche come ideazione. Come si relaziona agli altri due spettacoli?

In «Antò» cerco di concentrarmi sulla forza del singolo materiale, mi sforzo di pensarlo per numeri, come fosse del vero avanspettacolo. Il corpo dello spettacolo è fatto di attrazioni, per dirla alla Mejerhold, cioè pezzi efficaci e autosufficienti, contornate di improvvisazioni e digressioni che mi consentono di porgere il numero e adattarlo a quel pubblico e a quella situazione specifica. Anche se poi non resisto mai del tutto alla tentazione di unire i numeri in volute più ampie, di riunificarli in possibilità di senso, ma questa è una cosa che faccio riannodando a volo d’angelo materiali dispersi in finali tronchi e suggestivi.
Ecco, se l’«Asino albino» e «Angelica» erano la messa in scena ripetuta di un finale, direi che adesso mi diverto a moltiplicare finali. Come mi piace dire scherzosamente, mi considero il più grande autore di finali vivente, credo che un giorno farò uno spettacolo solo di finali. E d’altra parte se i miei spettacoli iniziano con un “comunque”, è perché vengono a loro volta dopo un finale, dopo Beckett se vuoi, dopo che tutto è stato già detto e la catastrofe si è compiuta. Il mio “comunque” è l’espressione più autenticamente popolare che conosca, quella che serve per andare avanti pur nel fallimento.

10. Ci parli del “pantheon” di personaggi che popolano i tuoi spettacoli?

Per essere un pantheon, è decisamente decaduto. Con loro ho un rapporto da mestierante, nel senso che quando mi servono li utilizzo. Sono la mia tavolozza dei colori, qualunque nuovo soggetto io voglia dipingere parto dai personaggi che ho, e solo in casi estremi me ne procuro di nuovi. Ci sono dei tipi fissi che ritornano, mi sto costruendo la mia personale Commedia dell’Arte, la mia compagnia girovaga incorporata. Ma anche il mio circo viaggiante, perché non sono solo i personaggi a ritornare, ma anche giochi e situazioni, una tra tutte Telemomò. È una cosa che faccio sempre più coscientemente e programmaticamente. Mi aiuta a rendere manifeste, a me stesso e ai miei spettatori più fedeli, l’evoluzione del mio lavoro. Evidenziare non solo la struttura di ogni singolo spettacolo, ma proprio i materiali e le linee di sviluppo su cui vado costruendo il mio piccolo artigianale universo creativo.
Ogni personaggio-macchietta rappresenta un mattone prezioso per me, che per qualche verso mi rappresenta e al quale faccio fatica a rinunciare. Il fumatore passa dall’«Asino albino» ad «Angelica» senza rimaneggiamenti. Il meticoloso che nell’«Asino albino» fa cruciverba e fotografa la spiaggia, finisce in «Antò le momò» a fare il viterbese irascibile capitato per caso nel teatro, e che finirà per innamorarsi di una barbie. L’opinionista dell’«Asino albino» è slittato nel Pulcinella di «Antò le momò», nel quale c’è chi ha visto un omaggio a Troisi, cosa che ovviamente non mi dispiace affatto, ma la cui genesi è tutt’altra: risale a un mio spettacolo di più di dieci anni fa, «La tartaruga in bicicletta in discesa va veloce», nel quale raccontavo del mio servizio civile con gli utenti di un servizio psichiatrico. Il calco originale è un malato di mente di origine napoletana, Agostino, che parlava stentatamente per modi di dire, attraverso un collage senza capo né coda di parole e argomentazioni orecchiate e mal digerite.
Della vecchietta ho già detto: lei è la mia narratrice, il mio modo per parlare dei cortocircuiti tra la contemporaneità e le sue scorie, i detriti di quello che scompare. Il modello originale era un’anziana signora da me conosciuta che scendeva in piazza in un paese abruzzese per chiacchierare con le sue comari, ma anziché spettegolare della gente del paese, raccontava quello che era successo il giorno prima nella soap che seguiva ormai da anni. La vecchietta dice di qualcosa che si è rotto nella cultura popolare, e non ho resistito a infilarla anche in «Antò le momò» e poi nella «Festa del Paparacchio», a maneggiare maldestramente surreali macchine agricole, disquisire di tradizioni inventate di sana pianta o cucinare improbabili ricette tipiche.
Fare di me un teatro ambulante è anche un modo per emanciparmi dai teatri come luoghi fisici e istituzioni usurate. Pensare per progetti piuttosto che per spettacoli. La «Festa del Paparacchio», ad esempio, è un progetto di animazione teatrale travestito da finta festa tradizionale, la cui vocazione è di essere inscenato in paesi o quartieri periferici, e comunque in luoghi dimenticati dal circuito teatrale. Ed è anche un format che mi consente di collaborare con altri gruppi o singoli artisti. Ma anche «Antò le momò» è tutt’altro che un lavoro chiuso, e quest’anno lo riproporrò a frammenti – vecchi e nuovi – in una situazione letteralmente avanspettacolare, ovvero nel foyer del Teatro Palladium a Roma, in apertura degli spettacoli teatrali della stagione.
Tutto quello che faccio ultimamente risponde a un bisogno che sento sempre più forte, quello di inventare contesti nuovi per i miei progetti. Fuggire dai teatri per incontrare il pubblico altrove, o perlomeno con altre ritualità. Tracciare reti e percorsi inediti. C’è qualcos’altro che abbia senso?

11. In «Antò le Momò» c’è la marionetta di Artaud, come in «Angelica» quella di Giovanni Paolo II. Anche nella «Festa del Paparacchio» compaiono le marionette di Walt Disney e Cristoforo Colombo. Che rapporti con queste marionette? Le marionette dell’«Asino albino» erano i personaggi? A differenza di quelli, però, raffigurano personaggi conosciuti. Perché?

La marionetta, che io equiparo alla maschera, per me è la verità del teatro, il suo livello più profondo e magico. La maschera, lo notava Barthes, ha qualcosa a che vedere con la morte, Barthes parlava delle maschere mortuarie, che da un altro punto di vista sono il negativo della maschera teatrale. Quelle devono immortalare una figura, questa deve rendere viva un’icona. Il fatto che siano Artaud e il papa Giovanni Paolo II è in parte casuale, ma sicuramente rafforza l’effetto di morto che rivive, specialmente per il secondo, la cui morte mediatizzata è stata una delle immagini più intense e memorabili degli ultimi anni. Ed è per questo che compare in Angelica, uscendo da una carrozzina per neonati in apertura di spettacolo e andando a morire nel finale dentro lo schermo di una televisione. Per quanto riguarda Artaud, volevo farne il protagonista del mio avanspettacolo della crudeltà appunto, così come mi divertiva immensamente l’idea di manovrare-prestare metà del mio corpo alla maschera di Artaud, diventarne in senso stretto il doppio, il Dio meschino che gli ruba i gesti e le parole nell’atto stesso di compierli e pronunziarle.
Tutto questo ha anche indubbiamente un suo lato iconoclasta, ma – mi auguro – non un’iconoclastia compiaciuta o denigratoria. Personalmente trovo piuttosto fastidiosa l’iconoclastia gratuita, il più delle volte per l’artista è una scorciatoia per far di se stesso un’icona. Tanto per capirci, la storia del rock è tutta un’iconografia iconoclasta, e anche tanto teatro sperimentale-giovanile tenta da decenni strade simili, senza davvero arrivare all’obiettivo data la marginalità del mezzo. Io al teatro chiedo qualcosa di più serio, di più articolato. È piuttosto la tecnica della maschera teatrale ad essere intrinsecamente iconoclasta, la vita di una maschera in scena è direttamente proporzionale alla sua capacità di deviare dalla sua fissità materiale, di essere un’icona mutante e metamorfica – un’immagine in grado di assorbire attivamente le espressioni del vivente. In effetti questa possibilità, ancora prima che una tecnica del gioco in maschera o della manipolazione della marionetta, si decide nel momento della sua costruzione. Non è possibile spiegarlo a parole, ma gran parte del lavoro teatrale, e sottolineo teatrale, che ho fatto sui volti di legno di Artaud e del Papa è consistito nell’attenzione paziente e nel trasporto che ho avuto nello scolpirli e studiarne le possibilità espressive man mano che gli intagliavo spigoli con le sgorbie e sfaccettavo superfici con raspini e carta vetrata.

12. Cos’è «Tele Momò»? E che futuro avrà?

Telemomò compare per la prima volta in «Angelica», ma è a sua volta lo sviluppo delle barbie usate come guarattelle per raccontare telenovelas a cui accennavo prima. Rispetto a quel lavoro si è aggiunta la cornice vuota della tv e si disarticola più compiutamente il linguaggio televisivo, con il suo bagaglio di campi e controcampi, primi piani espressivi, dettagli significativi e via dicendo. Si mima – è la formula più sintetica che uso per spiegarlo – la povertà del linguaggio televisivo mediante la povertà dei miei mezzi scenici. La mia ambizione è pian piano di inglobare nella mia cornice bucata tutti i tipi di format televisivi possibili. Ma stando ben attento a non imitare programmi specifici e men che meno personaggi televisivi. La tentazione c’è sempre data la facilità dell’operazione, ma mi sforzo di mantenere la mia critica a un livello più radicale, centrata sui linguaggi e i format. Vorrei, per assurdo, che dopo aver visto Telemomò non fosse più possibile assistere a un programma televisivo senza vederne la struttura in filigrana e riderne. Ma vorrei anche, e ho già iniziato a sperimentare questa possibilità, utilizzare la cornice di Telemomò per esprimermi seriamente; vedere cosa si può effettivamente esprimere da quel buco di quaranta centimetri quadrati. Dichiarare francamente a me stesso e al mondo che non esiste un altrove migliore dal quale ripartire. Grotowskji e Brook negli anni Sessanta sono partiti svuotando lo spazio, io riparto da una cornice bucata. Nel tragitto si è persa una dimensione. Comunque.
Telemomò è un meccanismo complesso dentro un’idea semplice, di quelle che a posteriori ti chiedi come non averci pensato prima, o come mai nessuno ci abbia pensato prima di te. Io l’ho inventata dopo aver fatto materialmente televisione, e forse non è un caso. In televisione portavo proprio la mia Beautiful sgangherata fatta con le barbie, però l’idea di base – la mia vecchietta che raccontava, ovvero il cortocircuito tra cultura orale e rappresentazione postmoderna– è stata cambiata e semplificata, e alla fine non ero affatto soddisfatto del risultato. Era diventato un onesto prodotto di cabaret televisivo, del tutto omogeneo al mezzo che lo conteneva. Forse per questo, per reazione a un mezzo che era stato in grado di neutralizzare il mio teatro, mi è venuto in mente a mia volta di inserire nel mio teatro la cornice, di farmela da me la mia televisione. E forse, per altro verso, non è neanche un caso che Telemomò nasca in questi anni, nei quali il tubo catodico inizia a perdere decisamente colpi a scapito della rete. I tempi devono essere maturi, come diceva Marx la storia si ripete una prima volta come tragedia la seconda come farsa. Io vorrei fare di Telemomò la seconda volta della televisione.
Con Telemomò voglio fare ancora molta strada, sempre per quell’idea di lavorare per filoni più che spettacoli. Con Telemomò, ad esempio, apro e chiudo la «Festa del Pataracchio»: per un evento di piazza niente di più giusto dal mio punto di vista che partire dalla condivisione, per quanto parodizzata, di un linguaggio come quello televisivo. Se la televisione ha fatto l’Italia di oggi, da lì bisognerà pur passare per disfarla. Sto cercando anche di farne una web-tv trasversale. Credo che abbia le carte in regola: l’unica televisione che contiene il proprio contenitore, ma anche l’unico mass media che tracima dalla propria cornice. Vorrei invadere come un virus il web di pillole di Telemomò, fino a creare una installazione on-line, una specie di monumento funebre carnevalesco alla televisione generalista. Che sta morendo. Vergin di servo encomio mi applico al codardo oltraggio.

[da Differenza n°38/2008]

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