Il teatro in caduta (libera). Riflessioni attorno al progetto del Teatro Era

Caduta«Era delle Cadute» è il titolo di un progetto andato in scena il 13 e 14 giugno al Teatro Era. Nato nell’ambito delle celebrazioni per i quarant’anni della Fondazione Pontedera Teatro, centro di produzione che ha intrecciato la propria attività con la presenza di Jerzy Grotowski in Toscana, «Era delle Cadute» non è però soltanto una celebrazione. Perché si inserisce in un tema caldo di questi anni, ovvero le forme di creazione e progettazione collettiva ed esperienze di residenza. Lo spettacolo andato in scena per due giorni, infatti, non è che il punto di arrivo di un processo iniziato un anno e mezzo prima, che ha coinvolto nove compagnie della generazione dei trenta-quarantenni, quelle appartenenti alla cosiddetta nuova scena. Nove formazioni dalle cifre estetiche differenti si sono confrontate per dare vita a uno spettacolo comune. Una composizione che copre tutto l’arco della Penisola: si va dai siciliani Civilleri/Lo Sicco a vicentini Carrozzeria Orfeo, passando per i romani Biancofango, i toscani di Scenica Frammenti, gli emiliani Teatro dei Venti e ancora LeVieDelFool, Teatro delle Bambole, Ossadiseppia e Macelleria Ettore. 

Lo spettacolo metteva insieme vari contributi di una decina di minuti, elaborati attorno al tema della “caduta”, presentati come altrettanti quadri che si succedevano nel corso dello spettacolo, apparendo e scomparendo da una selva di fondali neri che riempivano la scena suddividendola per strati. Scene e fondali si andavano sfogliando e ammainando come tante vale mano a mano che lo spettacolo proseguiva verso il finale corale, dove lo squadernamento della scatola teatrale – con l’apertura della parete di fondo che proiettava lo sguardo verso l’esterno – allestiva il coup de théâtre finale, che ruotava attorno all’irruzione di un’imponente macchineria, la figura di un gigantesco uccello che incombeva, come un’Erinni, sulle sorti dello spettacolo.

Lo stilema dell’uccello, il ricorso in certi passaggi alla giocoleria, ai trampoli, e l’utilizzo della musica live erano tuttavia gli unici elementi che collegavano tra loro il lavoro delle nove compagnie, altrimenti isolato e sperduto in questa grande macchina spettacolare che faticava ad ingranare. Perché «Era delle cadute», per quanto basato su un’idea interessante di dialogo tra gruppi di una stessa generazione, è uno spettacolo non riuscito. Uno spettacolo dove non si riesce a rinvenire un’urgenza e nemmeno un discorso lucido; un lavoro dove, per altro, l’interazione tra le compagnie è più promessa che mantenuta. «Era delle cadute» è quindi una “caduta” a sua volta. Ma forse, proprio per questo, dà lo spunto per un ragionamento interessante.

Anche a Roma, nel 2012, si era sperimentato un progetto di coabitazione e creazione condivisa al Teatro India: la factory «Perdutamente». Nonostante la profonda diversità dei progetti, anche in quel caso diverse persone sollevarono dubbi rispetto ai risultati (almeno ad una parte di essi). Nonostante la grande articolazione in studi, spettacoli, dibattiti, istallazioni e lounge, alcuni osservatori sottolinearono che restava una patina di autoreferenzialità nell’intera operazione – sembrava cioè fatta dagli artisti per gli artisti. Nonostante ciò, «Perdutamente» ha avuto invece un’onda lunga significativa negli spettacoli di Deflorian/Tagliarini, Timpano, Cosentino, MK, in diversi laboratori (Biancofango, Baracco) che hanno prodotto materiali da utilizzare in altri progetti, e nell’opera collettiva «Art You Lost?», ospite al Festival di Santarcangelo quest’anno e l’anno scorso. Chiaramente il progetto romano ha avuto a disposizione lo spazio per quasi tre mesi, a differenza dei soli cinque giorni di produzione che hanno fatto seguito ai 18 mesi di elaborazione di «Era delle cadute».

Ovviamente l’intento di questo articolo non è una fuorviante comparazione tra due progetti molto diversi, ma un a riflessione su un tema interno a un dibattito che si sta svolgendo in questi mesi: quello sulle residenze. A Torre Guaceto, ospite del Teatro Pubblico Pugliese, si è svolta la prima tappa di un seminario – Nobiltà e Miseria – che sarà ospitato per altre due tappe dagli altri soggetti ideatori: il festival Contemporanea di Prato e il Teatro Dimora di Mondaino. Lì sottolineavo come un aspetto poco esplorato e potenzialmente fecondo delle residenze potesse essere la coabitazione. La coabitazione che produce collaborazione artistica, ma che non la prescrive necessariamente. La formula della coabitazione può essere sfruttata sia in modo individuale – e quindi utile alla ricerca della singola compagnia – sia in modo collettivo; in entrambi i casi, tuttavia, produce conoscenza reciproca e scambi di saperi. Forse è proprio questo aspetto, prima ancora della commissione spettacolare, ad essere centrale per la crescita e il confronto generazionale.

«Era delle Cadute» e «Perdutamente» hanno illustrato potenzialità e difficoltà di simili progetti di coabitazione. Sarebbe davvero interessante se le polarità teatrali – siano essi gli stabili pubblici, gli stabili di innovazione o quel che risulterà di essi dopo la riforma – si occupassero e preoccupassero di fornire ambiti collettivi di creazione, siano essi declinati in chiave territoriale, generazionale o ancora per comune vocazione artistica. Potrebbero essere il primo passo di una vera contaminazione tra linguaggi e generazioni (qualora, ovviamente, questi progetti fossero adeguatamente finanziati). Ma dovrebbero farlo a partire dalle esigenze degli artisti stessi, poiché la formula della commissione esterna sembra non portare da nessuna parte. La commissione sembra essere uno strumento spuntato in un’epoca come quella odierna, dove la precarietà lavorativa (ed esistenziale) degli artisti è sempre di più di ostacolo alla messa a fuoco di un discorso artistico. Molto meglio, allora, puntare sulle urgenze che arrivano direttamente dagli artisti. Sostituire la “commissione” con la “cura”.

Inoltre bisogna sottolineare che simili progetti, qualora forniscano spazi, tecnica e risorse in modo prolungato, potrebbero avere un peso importante ma solamente per l’aspetto “interno”, quello della creazione e della crescita. Resta aperto – e scoperto – il nodo del pubblico. Cosa si invita a vedere e per quale ragione lo si fa, quando si aprono le porte di un processo creativo che, per certi versi, è in divenire e non ha ancora trovato una sua forma? È un tema su cui gli artisti, ma anche gli operatori, dovrebbero cominciare a riflettere con urgenza.

Per giunta si tratta di un tema complesso che non riguarda solo queste progettualità residenziali, ma anche i festival e altri ambiti di creazione e diffusione teatrale. Tanti osservatori – da ultimo Renato Palazzi su DelTeatro.it – stanno sottolineando le possibili storture di un sistema iperproduttivo, che consuma spettacoli e creatività a una velocità impressionante e a volte consuma persino gli artisti stessi. Un sistema per difendersi dal quale le compagnie hanno risposto con la carta degli “studi”, offrendo pillole smembrate di un unico progetto di lavoro per far fronte alla bulimia delle piazze artistiche affamate di prime nazionali o regionali, di eventi e ipernovità (spesso per rispondere ad un’altra attitudine bulimica, perfino peggiore, che è quella degli assessori e degli enti pubblici finanziatori, che hanno ormai smarrito la facoltà di discernere tra eventi di consumo culturale, che nulla lasciano alle spalle, e progettualità che producono nel tempo – e dunque con cura e fatica – un avanzamento culturale dei territori).

Non è questa la sede per approfondire questa problematica, che meriterebbe un articolo a sé. Tuttavia credo che ragionare sulle forme di residenza e sui progetti di coabitazione nel senso di un “antidoto” a questa spirale consumista potrebbe essere oggi particolarmente fecondo e interessante. Ovviamente bisognerebbe riconsiderare il tempo, lo spazio e le risorse messe a disposizione degli artisti; avere il coraggio di fare delle scelte perché non tutto si può (o si deve) sostenere; lottare per rialfabetizzare la politica a sostenere la creatività in modo innovativo, in linea con quanto avviene da molte parti in Europa; ripensare a cosa significhi incontrare il pubblico, ovvero quando e perché chiamare qualcuno di esterno ad incontrare i risultati di un lavoro. In sintesi: uscire dalla logica dell’evento per ripensarsi dentro la logica dell’opera. È in grado teatro italiano di compiere, oggi, uno scarto simile?

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