L’isola delle Rose. Storia della piccola atlantide

Isola delle roseEntro cinque anni l’intero patrimonio librario mondiale sarà disponibile on-line. La dichiarazione degli esperti, ripresa dai giornali, paragonava Internet alla Biblioteca universale descritta da Borges: forse non avrà le medesime sale esagonali, ma la vertigine che provocherà sarà la stessa.
Nel frattempo, però, la rete riesce a recuperare storie dimenticate da tempo, come quella dell’Isola delle Rose, una piattaforma artificiale costruita nel mar Adriatico, a largo delle coste riminesi, che tentò di dichiarare l’indipendenza dallo stato italiano. Accadeva quarant’anni fa e se n’era persa la memoria. Finché l’interesse di alcuni internauti non ha permesso all’isola e alla sua storia di vivere una nuova vita. Virtuale.
L’idea di costruire un’isola al di fuori delle acque territoriali italiane venne all’ingegner Giorgio Rosa, ideatore del progetto e futuro capo di stato della micronazione, caratterizzata da un’esistenza piuttosto breve: 55 giorni. Prendendo spunto dalla cinta di forti militari inglese, realizzata a largo delle coste durante la seconda guerra mondiale [su uno di questi nacque il Principato di Sealand – vedi Carta n°7 del 2007], l’ingegner Rosa cominciò a progettare una struttura simile. Siamo nel 1956. Rosa ha appena finito un lavoro in un cantiere edile, scontrandosi con un iter burocratico tortuoso. A questo, si aggiungono le sue considerazioni personali su un’Italia completamente asservita agli interessi americani. «Non potevi fare nulla che i politici non volessero», scrive in un memoriale intitolato «Il fulmine e il temporale di ‘Isola delle Rose’», redatto per una rivista inglese. «I preti, con le loro assurde teorie e le loro sette ti inchiodavano e volevano che tu non facessi nulla che a loro non garbasse; i comunisti cercavano di combattere i signori e di portar via loro, con la terra, anche la loro ragione di esistere; solo i politici, asserviti ai russi o agli americani, avevano un futuro». Le alternative individuate da Rosa sono due: trasferirsi in un paese indipendente – ma in ogni stato esistono poteri forti – oppure farne nascere uno.
Due anni più tardi, nel 1958, comincia lo studio per la realizzazione della struttura, poi tradotto nel brevetto per invenzione industriale n°1799/A/68. Oggetto del brevetto è un «sistema di costruzione di isole in acciaio e cemento armato per scopi industriali e civili». Il 15 e 16 luglio di quello stesso anno cominciano i primi sopralluoghi nel punto prescelto, denominato «Z», a circa 11 chilometri e mezzo a largo delle coste riminesi, in prossimità della Località Torre Predera, comune di Bellaria-Igea marina. La distanza dalla costa non è casuale: la legge italiana dell’epoca, il Regio decreto n°327 del 1942, fissava a 6 miglia nautiche [11,112 chilometri] il limite delle acque territoriali. Solo nel 1974 il limite venne esteso alle attuali 12 miglia nautiche. Il punto «Z», situato a una latitudine di 44° 10’ 49’’ e a una longitudine di 12° 37’ 20’’, era al di là del limite di almeno 500 metri. E, in questo modo, era anche al di là della giurisdizione italiana.

Storia di un’isola artificiale

«Prima di imbarcarmi nella realizzazione dell’isola mi ero informato sulle norme in materia di diritto internazione», racconta Giorgio Rosa, oggi un ottantaduenne in pensione dalla voce squillante e dal forte accento bolognese. «Avevo interpellato alcuni procuratori della repubblica e il professor Sereni, docente in questo campo all’università di Bologna. Tutto confermava quello che pensavamo: al di fuori delle acque territoriali la giurisdizione degli stati non ha valore».
Rosa comincia a studiare la vicina isola d’acciaio Sarom 1, realizzata dall’omonima ditta [Società azionaria raffinazione olii minerari] di Attilio Monti. Nel frattempo dà vita alla Spic [Società sperimentale per iniezioni di cemento], con la signora Gabriella Chierici, sua futura moglie, come presidente. I sopralluoghi vanno avanti per tutta l’estate del 1960: l’ingegnere utilizza un piccolo natante di sua costruzione, su cui aveva impiantato il motore di una Fiat 500. Le spedizioni le effettua da solo, per mantenere la segretezza sul progetto. Ma l’anno successivo coinvolge il signor Rinaldini, proprietario di un cantiere navale riminese, e la piccola imbarcazione viene sostituita da un moto-topo veneziano più sicuro, ribattezzato il «Luciano».
Nel 1962 il progetto subisce una battuta d’arresto: Rosa ha una professione da mandare avanti, e i costi e le difficoltà dell’impresa lo fanno desistere. Ma due anni più tardi torna ad appassionarsi all’idea di quella che, romaticamente, definisce «un’isola di fiori in mezzo al mare». Acquistato un peschereccio, il Bruno I, e costruito in proprio un motoscafo, prosegue le spedizioni assieme al gruppo di professionisti bolognesi che avrebbe dato vita al primo e unico governo dell’Isola delle Rose. La struttura dell’isola viene commissionata alla ditta Dalmine di Verdello di Bergamo: nove tubi di 36 metri, che arrivarono a Pesaro per l’assemblaggio il 14 luglio del 1964. Due settimane più tardi, il 31 luglio, toccarono il fondale marino.
L’idea della struttura era piuttosto ben congeniata, come si sarebbe visto in seguito: i nove tubi, riuniti in gruppi da tre, andavano a formare tre grossi pilastri su cui reggeva una struttura che avrebbe dovuto contare cinque piani. Saldati in cima, ma dotati di una saracinesca in basso, di modo che potessero imbarcare acqua ed adagiarsi sul fondo senza l’intervento di palombari e sommozzatori.
Ma i lavori di ancoraggio si allungano. Arriva l’inverno del 1965 e una nuova battuta d’arresto: la struttura viene capovolta da una mareggiata. Con l’arrivo dell’estate partono i lavori di recupero e ancoraggio e, esattamente un anno dopo, il 21 maggio del 1966, Giorgio Rosa è la prima persona a dormire sull’isola ribattezzata col suo nome.

L’isola esperantista

«Già dal 1964 avevamo informato la capitaneria di porto del nostro progetto», chiarisce l’ingegnere. Avevamo chiesto spazi in banchina a Rimini, Pesaro e Ravenna. E, nei fatti, già da allora ci fu riconosciuta l’extraterritorialità: non eravamo soggetto all’Ige [l’imposta generale sull’entrata, in vigore fino all’introduzione dell’Irpef, ndr] e eravamo autorizzati all’imbarco di carburante a regime agevolato, senza imposta di fabbricazione».
Nel frattempo il progetto diventa di dominio pubblico. Il 6 novembre del 1966 esce un articolo sulla rivista «Sorrisi e Canzoni». Ma, con la notorietà, cominciano i problemi. In quello stesso mese il colonnello Sanguinetti della capitaneria di porto di Rimini intima alla Spic di interrompere i lavori o di chiedere un’autorizzazione, perché «la zona è in concessione all’Eni». Di lì a poco anche la Digos e la Dogana si interessarono della vicenda. «Non ho mai capito come potesse lo stato italiano dare in concessione all’Eni una zona che non era sotto la sua giurisdizione», si domanda Rosa. Nel frattempo anche «Epoca» e «Novella 2000» si occupano della vicenda.
Per marcare la differenza dallo stato italiano, il libero territorio dell’Isola delle Rose, che di lì a poco sarebbe divenuto una repubblica autonoma, decise di adottare l’esperanto come lingua ufficiale. Adotta come stemma tre rose rosse in campo bianco, su una bandiera triangolare arancione. L’Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj avrebbe redatto “in lingua” la sua dichiarazione di indipendenza, grazie all’aiuto del gruppo di esperantisti di Albino Ceccanti, frate francescano riminese. «In quegli anni si parlava molto dell’esperanto», spiega l’ingegner Rosa, che esperantista non era. Una decisione che valse all’isola parecchie simpatie.

La dichiarazione indipendenza

Nell’agosto del 1967 l’isola apre al pubblico, e l’anno successivo, il 1 maggio del 1968, viene dichiarata l’indipendenza. «La data è abbastanza casuale», chiarisce l’ingegnere, che dice di non aver mai voluto dare un colore politico al suo progetto. «Dovevamo renderci indipendenti il prima possibile». Anche perché la stagione estiva era alle porte, e l’Isola delle Rose contava sul turismo per la propria sussistenza economia. Obiettivo che allarmò le autorità italiane, che vedevano nell’isola un’operazione commerciale che aggirava le dovute tasse.
«Certo che avevamo intenzione di diventare un’attrazione turistica» chiarisce l’ingegnere. «Pensavamo di mettere in piedi degli esercizi commerciali. Aprimmo un bar e un ufficio postale, emettendo varie serie di francobolli. Volevamo creare una banca e coniare monete. Altre iniziative sarebbero sorte in seguito, sull’esempio di altri micropaesi indipendenti, come San Marino. La cosa avrebbe retto: dove c’è libertà c’è ricchezza».
L’isola, da attrattiva suggestiva, comincia a suggestionare: si favoleggia di night club, di un futuro casinò, qualcuno parla di prostituzione, altri di una radio pirata. In realtà la grossa “antenna” dell’isola è una trivella per l’acqua dolce, mentre l’unica attività godereccia dell’isola, a dire del suo creatore, sono delle «grandi mangiate». Ma nel frattempo, le navi dirette a Trieste o Ancona deviavano un poco la loro rotta per far vedere ai loro passeggeri la bizzarra isola sorta in mezzo al mare.

In fondo al mare

L’indipendenza della repubblica esperantista dura solo 55 giorni. Il 25 giugno del 1968 una decina di pilotine dei carabinieri e della Guardia di Finanza circondano l’isola, occupandola militarmente. «Si trattò di un’occupazione vera e propria, perché eravamo fuori delle acque territoriali. Tant’è vero che, quando presentammo ricorso al Consiglio d’Europa, ci fu risposto che il Consiglio non aveva giurisdizione sull’accaduto, perché non era Europa».
In realtà viene applicato un trattato internazionale che l’Italia non ha ancora ratificato nel 1968, e che prevede l’estensione della giurisdizione alle successive sei miglia marine in caso di sicurezza nazionale. A spiegarlo è Vincenzo Delehaye, esperantista napoletano che si è imbattuto per caso nell’Isola delle Rose, appassionandosi della sua storia. «Ad ogni modo si trattava di una forzatura», afferma.
Giorgio Rosa prosegue la sua battaglia legale senza successo. Invia un telegramma all’allora Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, che resta senza risposta. Prova a interpellare politici e avvocati, e si consula con il sovrano ordine militare di Malta – ente con una propria giurisdizione ma senza territorio – per un’eventuale cessione dell’isola. Ma la situazione viene giudicata «troppo compromessa». Il Gruppo esperantista riminese suggerisce la cessione dell’isola a loro. «Qualunque soluzione mi sarebbe adanta bene, pur di far sopravvivere l’isola», dice Rosa. Ma non ci sarà il tempo. L’11 febbraio del 1969 i sommozzatori della marina militare raggiungono la struttura e, segati i raccordi tra i pali, la minano con 75 chili di esplosivo per ciascun palo. Tuttavia l’esplosione non sortisce l’effetto sperato: la struttura resiste, e resisterà anche a una seconda esplosione, realizzata con 120 chili per palo. Tuttavia la stabilità dell’Isola è compromessa irrimediabilmente: si inabisserà il 26 febbraio a causa di una burrasca.

Leggenda reale, leggenda virtuale

La vicenda fu vissuta con partecipazione dalla cittadinanza riminese. In particolare dai commercianti, che ritenevano che l’isola postesse costituire un’attrattiva. «Ci fu persino una manifestazione. Anche perché il governo era democristiano, i riminesi tutti comunisti. Se non altro per amore di partito si opposero: realizzarono persino dei manifesti per denunciare quello che, a ben vedere, era un abuso». La vicenda era giunta persino in parlamento: Stefano Menicacci, deputato missino, aveva presentato un’interrogazione in cui parlava dell’esistenaza «di uno Stato-burletta nello Stato italiano». Il governo di Giovanni Leone, da poco in carica, portò avanti con fermezza la linea della distruzione. «Probabilmente pesarono gli interessi dell’Eni di cui parlava la capitaneria di porto – ipotizza Giorgio Rosa – altrimenti non mi so spiegare il perché».
Dopo la distruzione della struttura, della vicenda non si parla più. L’Isola delle Rose, inabissatasi come una moderna Atlantide, è presto consegnata all’oblio. Ma dopo quarant’anni torna a rivivere in rete, grazie all’interessamento di una rivista di filatelia. L’articolo di Fabio Vaccarezza, del dicembre 2006, si interessa alla vicenda a causa dei francobolli da 30 mills emessi dallo stato esperantista (il mill era la valuta di cui l’Isola delle Rose si sarebbe dovuta dotare, ma che non fu mai emessa). Presto altre testimonianze si aggiungono.
Come per Sealand, la vocazione libertaria della rete dà ampio a storie come questa. In opinioni-di-una-mamma.blogspot.com, una blogger che conosceva la storia già da bambina perché il padre aveva partecipato alla demolizione, ne crea una versione fiabesca: un re in cerca della libertà, una lingua di nessuno e dunque di tutti, un nome romantico che rimanda ad altre favole, sono gli ingredienti per restituire ai naviganti virtuali tutta la suggestione che l’isola e le sue rose avevano suscitato in una bambina.
Vincenzo Delehaye, invece, decide di raccogliere le informazioni in modo più analitico, creando una pagina su Wiki-pedia. Tra le “curiosità” sottolineate dalla sua ricostruzione c’è la scritta «Hostium rabies diruit opus non ideam» [la rabbia dei nemici ha distrutto l’opera, non l’idea], apparsa sull’ultima serie di francobolli, emessi dopo la distruzione dell’isola. «Una dicitura simile, che comprende le prima tre parole, era riportata su una serie di francobolli emessi dalla Repubblica sociale italiana – spiega Delehaye – Il riferimento era ai monumenti distrutti dagli americani: vero per l’abbazia di Cassino, totalmente falso per il duomo di Palermo o la Loggia dei Mercanti di Bologna». L’ingegner Rosa, che è nato nel 1925 e nel ’43 fu chiamato alle armi proprio sotto la Rsi, quella scritta se la ricorda. «L’abbiamo ripresa e adattata – conferma – per sottolineare la violenza dello stato italiano che ha occupato e distrutto l’isola. In Inghilterra, per la vicenda di Sealand non si arrivò a tanto. Ma è anche vero che la struttura, in quel caso, era stata realizzata dal governo inglese».
«La storia è suggestiva», afferma Vincenzo Delehaye. «Io mi ci avvicinai a causa dell’esperanto, ma capii in fretta che non si trattava di un aspetto sostanziale, piuttosto di una trovata pubblicitaria». In effetti, lo stesso Giorgio Rosa ha sottolineato come l’indipendeza dallo stato italiano fosse soprattutto di carattere “fiscale”: l’isola doveva essere un’attrazione turistica. «Ma ci sono altri passaggi ‘strani’ – continua Delehaye – Si parlò di attività illecite, certo, ma anche del fatto che dietro il progetto ci fossero potenze straniere. Ci parlava della Russia, chi dell’Albania di Hoxha. Uno dei soci della Spic, lo svizzero Joseph Gottfried Dubach, era uno strano personaggio, coinvolto nella vicenda del fallimento della «Sparkasse» del Liechtenstein, che mise in ginocchio il piccolo stato, indebitato pesantemente con la Svizzera. Anche il fatto che il secondo governo Leone, appena insediatosi, avesse tra le sue priorità lo smantellamento della struttura suona un po’ strano».
C’è poi l’aspetto dei costi. Costruire un’isola non è una cosa da poco: il costo complessivo dell’operazione si aggirò attorno ai 100 milioni di lire, che tradotti nel valore attuale corrisponderebbero a circa 400mila euro. Dove furono trovati i finanziamenti? «I soldi li mettemmo noi, dalla prima all’ultima lira – dice l’ingegner Rosa – eravamo tutti professionisti, si guadagnava bene».
Divisi tra la visione complottista e quella romantica, gli internauti hanno comunque riscoperto la storia con interesse. Territori indipendenti, siano essi virtuali o reali, goliardici o con una vocazione commerciale, trovano facilmente cittadinanza in rete: perché testimoniano la voglia di indipendenza e la crisi di rappresentanza – soprattutto culturale – delle vecchie istituzioni nazionali.
Per dovere di cronaca va sottolineato che oggi, press’a poco nel punto dove sorgeva l’Isola delle Rose, si trovano due piattaforme metanifere dell’Agip: Azalea 1-2 e Azalea B.

[da Carta Etc n°03/2007]

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