«Figlio di cane» di Attilio Scarpellini


“Ero sempre troppo impaziente,
cominciavo a risolvere i miei problemi
prima di averli ben posti.
Tipico dei cani.”

Attilio Scarpellini non è solo un profondo conoscitore della scena teatrale, un pensatore trasversale in grado di connettere estetica, politica, filosofia nel raccontare da critico oggetti d’arte teatrale, o fotografica, o di altre forme. È anche, e soprattutto, un intellettuale di rara sensibilità. Sensibilità che si riverbera nella sua scrittura, ricca, polimorfa, che non si argina nello spazio della riflessione critica ma che carsicamente non la abbandona mai.

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«Il fuoco era la cura» di Sotterraneo

ph Maurizio Castaldo

Ne “Il fuoco era la cura”, l’ultimo spettacolo della compagnia Sotterraneo, il classico di Ray Bradbudy del 1953 – il mitico “Fahrenheit 451” – si rivela non tanto il centro del discorso, quanto un ambiente da attraversare, incrociandolo con una distopia tutta nuova che dialoga con quella storica: e se anche oggi si bruciassero i libri, si cancellassero gli scritti digitali sui sociali, e non per tenere la gente nell’ignoranza ma per allontanarla dalle dispute che, attraverso la scrittura, finiscono per trasformarsi in un gorgo psichico che ci divora tutti? Culture wars e campagne mediatiche, fake news e crociate digitali… tutte questioni che contribuiscono a inquinare l’ambiente digitale, ad avvelenare i pozzi, a metterci sui fronti di dialogo impossibile. Un’iperbole, certo, ma che serve a parlaci di un immaginario rogo del nostro presente che, più che con il fuoco vero, ha a che fare con il fuoco che incendia le nostre menti.

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«Storia dei miei soldi» di Melissa Panarello

«Storia dei miei soldi» (Bompiani 2024)

Il nuovo romanzo di Melissa Panarello ha catturato la mia attenzione fin dal titolo, perché il tema dei soldi – in una società tutta economicista, dove le persone sono spesso ridotte a numeri e funzioni – è un tema nodale, incredibilmente poco raccontato da libri, spettacoli e film. Lo si fa, ovviamente, ma senza andare quasi mai a fondo della questione. Una reticenza che è, a mio modo di vedere, una delle ragioni per cui, come scrive l’autrice in un passo del libro, la letteratura (e il teatro, etc) oggi non produce opere durevoli. Forse, anzi sicuramente, se pure si raccontasse di più questo tema ci sarebbero mille altri fattori da considerare, eppure l’idea che “è negli estratti conti, non nei romanzi, che trovi le storie della gente” (parafrasi mia) è così lampante che constatare come questa prospettiva non sia un rovello continuo del presente – c’è chi lo fa, certo – non può non far pensare a una forma di rimosso.

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«Il Buio» di Antonio Moresco

ph Margherita Caprilli (dal sito di ERT)

“La letteratura è l’essenzialità o non è niente”, scriveva Georges Bataille nell’introduzione ai suoi saggi dedicati alla letteratura e il male. E proseguiva affermando: “Il Male – una forma acuta del Male – che si esprime in essa, ha per noi, credo, valore sovrano. Tuttavia questa concezione non esige un’assenza morale: essa esige piuttosto una ‘ipermorale’”. È una considerazione che mi è tornata in mente guardando lo spettacolo scritto e diretto da Antonio Moresco, dedicato alla figura di Santa Rita da Cascia. “Il buio” del titolo non è soltanto una metafora, una forma letteraria di evocazione del buio che alberga nell’animo umano, ma vera e propria materia plastica che serve a dare forma allo spettacolo: dal buio affiora il fantasma di Margherita Lotti, poi Santa Rita, e nel buio si muove un sofisticato gioco di luci, di ombre, di voci che interagiscono con l’attrice Alessandra Dell’Atti (la voce, invece, è dello stesso Moresco). Un buio materico, assoluto o quasi – il buio assoluto è un’utopia nel teatro, soprattutto quello odierno pieno di regole di evacuazione e di lucine per la sicurezza, ma nonostante ciò resta un’ideale a cui un certo teatro continua giustamente a tendere, conscio della potenza di un nero – un vuoto? – carico di possibilità di immaginazione (ed è per questo che agli spettatori viene richiesto di presentarsi in abiti scuri, affinché la chiarezza dei vestiti non finisca per far rimbalzare la luce dello spettacolo).

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I «Sei personaggi» di Pirandello secondo Michele Sinisi

ph dell’autore

Anche se per i puristi è una questione spinosa (e persino scandalosa) in più di un’occasione ho detto che certi classici teatrali, benché scritti in italiano, andrebbero “riscritti” per essere messi in scena oggi – come per la verità facciamo con le nuove traduzioni delle tragedie, o di Shakespeare. Perché la distanza che c’è tra noi e un certo italiano desueto (anche “desueto” è un aggettivo desueto, lo so..) è tale che finisce per essere un elemento di distrazione, di non concentrazione, nonostante la qualità della lingua. E come esempio portavo proprio i Sei personaggi di Pirandello.

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«Concerto fetido su quattro zampe» di Alice e Davide Sinigaglia


«Concerto fetido su quattro zampe» di Alice e Davide Sinigaglia è un oggetto non identificato e non identificabile, un po’ teatro e un po’ concerto, sicuramente qualcosa che si prende il lusso di sparigliare le carte e rompere a piacimento i codici della rappresentazione, non per cercare sperimentalismi, siamo in tutt’altri codici, ma solo per seguire il flow di un esprimersi ruvido, comico, volutamente grezzo eppure anche parecchio raffinato. Difficile sintetizzare un arco narrativo ma potremmo dire che «Concerto fetido» è la cantata di due umani, di due sapiens che si calano nei pensieri dei cani (qui presi ad archetipo degli altri mammiferi), si “animalizzano” e così facendo squadernano una serie di retoriche con cui ci distinguiamo dalla condizione naturale ma anche tutte quelle che usiamo per romantizzarla. Dall’arca di Noé che diventa una possibile orgia di sesso interspecie (dove nessuna gazzella sarà sbranata senza il suo consenso) fino ai cani che con i loro “occhi così umani” sono decisamente migliori di noi.

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«Oh, scusa dormivi» di Jane Birkin / Solari-Vanzi

ph Piero Marsili Libelli

“Oh, scusa dormivi” di Jane Birkin è un testo che mette in scena due amanti in là con gli anni, due sopravvissuti alle relazioni d’amore che finiscono per essere persino d’odio nel momento in cui sfidano la naturale legge del tempo, che tende alla dissipazione. Con grazia e ironia – ma anche “ferocia” – lo hanno messo in scena Alessandra Vanzi e Marco Solari in una due giorni all’Angelo Mai, dando vita alla notte insonne di due corpi senescenti che ancora desiderano mordere la vita, ma non per questo fanno finta di non vedere il disfacimento dei propri involucri biologici. Desiderare ed essere stufi di farlo, oscillare tra la resa all’età e la paura di invecchiare, interrogare la seduzione come metro delle relazioni sapendo che è una speranza destinata alla sconfitta. In modo giocoso ma senza fare sconti questo lavoro si prende carico del disfacimento dei corpi, della morte, della sfida al tempo.

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Urlo


Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalle cartelle esattoriali,
affamate nude isteriche,
trascinarsi per i corridoi dei ministeri e degli assessorati
in cerca di un finanziamento rabbioso,
artisti ardenti per le nuove istanze
che in miseria e stracci e occhi infossati
stavano a contemplare, nel buio soprannaturale di soffitte,
domande ministeriali e rendicontazioni di progetti europei.
Che passavano per le università con freddi occhi radiosi allucinati
in cerca di partecipanti ai laboratori.
Che venivano espulsi dalle accademie come pazzi
per aver chiesto un posto fisso o un assegno di ricerca.
Che si accucciavano in mutande in stanze dirigenziali,
implorando un’estensione del contratto.
Che mangiavano fuoco negli alberghi dei festival e dei convegni,
e notte dopo notte si purgatorizzavano
con sogni, droghe, incubi
e sbronze a non finire,
in attesa di un bonifico perennemente in ritardo.

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«Le Serve» di Genet – regia di Veronica Cruciani

ph dal sito di Ert

Nel 1933 in Francia due sorelle a servizio presso una famiglia borghese uccisero madre e figlia presso cui lavoravano con una ferocia incredibile, tanto da cavare gli occhi alle vittime ancora agonizzanti. Il caso scioccò l’opinione pubblica, Lacan ne fece oggetto di studio, Jean Genet lo trasfigurò in arte, scrivendo la storia di Claire e Solange che, quando la Signora è assente, si mettono i suoi vestiti e la interpretano a turno, cercando di materializzare in questo teatrino personale il desiderio di ucciderla.

In questi giorni ha debuttato un nuovo allestimentimento de «Le serve» di Genet, per la regia di Veronica Cruciani. Nello scegliere di portare in scena un testo oramai classico come quello, la regista romana ha applicato un’attitudine che oggi, nel XXI secolo, dovrebbe guidare chiunque si avvicina a un classico: scavo, sguardo in profondità, ma attenzione alla superficie, da spolverare, tirare a lucido. Profondità e superficie, in un testo, convivono nello spazio di senso delle parole. La traduzione di Monica Capuani e la regia di Veronica Cruciani fanno così emergere alcuni aspetti di ferinità, di ossessione e paranoia che caratterizzano il testo in una dinamica comprensibili anche a chi non lo conosce. Il rapporto delle tre donne con il lattaio, che emerge nelle sua dimensione carnale e di ingelosimento, ne è un esempio. Ma soprattutto il teatro nel teatro proposto da Genet, che materializza l’ossessione delle due giovani condannate a una vita di lavoro e ossequio e vorrebbero sbarazzarsi della causa dei loro mali (che però segretamente ammirano, di cui vorrebbero gli oggetti, i soldi, forse persino l’identità) emerge in questo modo in tutta la sua virulenza.

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«Smarrimento» di Lucia Calamaro

Ph Giulia Di Vitantonio (dal sito del teatro di roma)

La crisi è una disposizione dell’anima, un permanere dello stato di allerta esistenziale e della frattura che percepiamo nella narrazione della nostra esistenza e che, ingenuamente, facciamo finta di crederla un inciampo, un momento, un dosso che frena la corsa altrimenti lineare e scorrevole della vita. Faremmo bene stravolgere la metafora, perché forse a fare bene i conti la crisi è la via maestra e i dossi sono i momenti di felicità, le epifanie, le illuminazioni. Ma questo non vuol dire che non sia proprio questo stravolgimento a raccontarci il senso più profondo del nostro stare al mondo. È quanto tra le righe ci racconta Anna, scrittrice col blocco della pagina bianca protagonista di “Smarrimento” – testo che possiamo considerare il più bel monologo di Lucia Calamaro, autrice di alcune delle drammaturgie più belle di questi anni (quasi sempre però in forma di affresco, di coralità, o almeno di polifonia di voci e storie). Lucia Mascino, straordinaria protagonista di questo spettacolo, riesce incarnare con un equilibrismo straordinario l’oscillare doloroso e buffo di Anna tra il desiderio di uscire dall’impasse, il desiderio di creare (che è anche un po’ il desiderio di mettere ordine alla propria esistenza) e il galleggiare nell’incertezza, nel frantumarsi delle convinzioni e delle relazioni (qui incarnate dal rapporto col marito) che pur frammentate restano frammenti di senso a cui, alla fine, si torna come si torna ai punti fermi dell’esistenza, boe nella tempesta.

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