Lorenzo Pavolini, in un articolo apparso su questa rivista, notava come le differenze tra la scrittura teatrale e quella narrativa si fossero nel tempo assottigliate. L’utilizzo sempre più diffuso della prima persona e il diradarsi della letterarietà della lingua a favore di una lingua sempre più parlata ha reso, tendenzialmente, molti romanzi simili a dei monologhi. Allo stesso tempo molto teatro, compreso quello che proviene dalla cosiddetta ricerca, ha ripreso a “raccontare storie” e in forma tutt’altro che episodica (anche se deve scontrarsi con la tradizionale allergia ai nuovi nomi di parte del pubblico e degli operatori). Lo fa, per altro con una certa libertà compositiva che a volte si fa fatica a trovare nella narrativa degli ultimissimi anni, condizionata da esigenze commerciali (il genere, la scansione, la leggibilità) che sono essenziali per gli editori ma del tutto ininfluenti per chi scrive per il teatro. Tutto questo, per altro, avviene in un’epoca in cui invece si continua a vivere la letteratura e il teatro come due mondi separati (grazie anche al ponte fecondo che, nei decenni scorsi, si è invece venuto a creare tra arte contemporanea e teatro, spostando di molto l’accento sulle dinamiche della performance).
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L’arte di decostruire. Menoventi, Opera e Andrea Cosentino

Durante la prima settimana di Teatri di Vetro – festival romano alla VI edizione, che si svolge in maggio tra il Teatro Palladium e i suggestivi lotti della Garbatella – si sono succeduti tre spettacoli molto diversi tra loro, accomunati però da una tensione comune: la decostruzione. Attenzione, però, non si tratta del gusto per il frammento e per la disintegrazione della forma che ha attraversato molta scena degli anni Novanta. In questi tre lavori – in linea con quanto accade in una fetta significativa della scena degli anni Zero – l’obiettivo è un altro. Smontare la scatola, rompere il giocatolo, far vedere allo spettatore (anzi, vedere assieme allo spettatore) cosa c’è all’interno del meccanismo della comunicazione (in questo caso) teatrale, e delle retoriche del racconto. Continua a leggere L’arte di decostruire. Menoventi, Opera e Andrea Cosentino
Il potere della menzogna. Perdere la faccia di Menoventi
Il teatro incontra il cinema. Ovvero i Menoventi, giovane compagnia di Faenza tra le più interessanti del panorama di ricerca, incontrano Daniele Ciprì, cineasta geniale e anticonformista. Il risultato è un’opera, “Perdere la faccia” – di recente presentata all’Angelo Mai di Roma – piuttosto fuori dal comune, ma assolutamente in linea con la ricerca di questa compagnia, che attraverso registri diversi ha indagato il meccanismo della finzione e dell’illusione. “Perdere la faccia” è un congegno ad effetto che preferiamo non svelare, ma non si farà torto a chi legge se si omette la trama di quest’opera, perché il vero fulcro che essa pone allattenzione degli spettatori – un pubblico finalmente che ibrida i mondi del cinema e del teatro – è in fondo altrove. I Menoventi – ovveri Gianni Farina, Consuelo Battiston e Alessandro Miele – lo espicitano già nella presentazione che precede l’opera, che definiscono “un’occasione irripetibile” questo incontro artistico con Ciprì. Ma le parole e i particolari, come è tradizione di questa compagnia, non sono mai scelte a caso. Perché in realtà il cinema – e forse non solo quello – è piuttosto il contrario, l’emblema della ripetibilità, o della riproducibilità per usare un termine caro a Walter Benjamin. E questa riproducibilità, che secondo il filosofo berlinese è alla base della perdita di aurea dell’opera d’arte, è proprio uno dei temi portanti di “Perdere la faccia”, che nella reiterazione trova la chiave ironica per smontare il meccanismo dell'”evento irripetibile”, che è oggi l’unico format con cui ci viene proposto il gesto artistico: qualcosa a cui non si può rinunciare, perché non si ripeterà. Continua a leggere Il potere della menzogna. Perdere la faccia di Menoventi
La tela invisibile dei Menoventi
La compagnia Menoventi è una tra le realtà più interessanti dell’ultima generazione teatrale, lo dimostra la grande capacità inventiva e la versatilità di linguaggio che questa giovane formazione faentina – composta da Consuelo Battiston, Gianni Farina e Alessandro Miele – utilizza di volta in volta nei suoi spettacoli. C’è più di un fil rouge che attraversa i lavori di Menoventi, da un gusto per la comicità surreale al ragionamento sul pubblico come spettatore che si riscopre attivo e partecipe – il tentativo cioè di innescare delle epifanie di coscienza in chi guarda, che si scopre parte del meccanismo senza dovervi essere incluso a forza, e un po’ forzosamente, come accadeva negli anni Settanta. Senza preoccuparsi di creare uno stile riconoscibile, Menoventi lavora cercando di volta in volta la soluzione migliore per l’interrogativo che è al centro della creazione a cui si dedica – una particolarità preziosa, che dimostra profondità di ragionamento, e assai rara in un panorama artistico dove si insiste in maniera eccessiva a presentare le compagnie teatrali come portatori di un determinato “brand” estetico. Continua a leggere La tela invisibile dei Menoventi
Scendere a patti coi Menoventi
All’inizio si viene accolti in una sorta d’ufficio da una persona elegante e affabile, ma anche un po’ inquietante, che ci spiega che occorre sbrigare una piccola formalità: cedere l’anima al diavolo in cambio della visione dello spettacolo. Un po’ poco, si potrà obiettare, ma per chi non firma l’unica alternativa è non assistere alla piéce. Potrebbe sembrare un classico congegno d’arte concettuale, dove si dà corpo a un concetto astratto (la facilità con cui “ci si vende” al giorno d’oggi); ma «Postilla» della compagnia Menoventi – spettacolo a cui accede un solo spettatore alla volta – è qualcosa di più complesso. Per chi si avventura in questo “viaggio infernale”, dove risuona ossessivamente il nome che spicca sul contratto, si schiude allo stesso tempo un meccanismo basato sulla colpa che l’atmosfera dalle tinte horror alla Lucio Fulci, sapientemente orchestrate dalla regia di Gianni Farina, sa istillare nel profondo. Continua a leggere Scendere a patti coi Menoventi
I due volti del potere. «Semiramis» dei Menoventi
Attorno alla figura di Semiramide, mitica regina dell’Assiria, si è sviluppata una serie di leggende variegate e contraddittorie fin dall’antichità. Se Erodoto ne esalta le qualità di statista, in grado non solo di espandere il proprio regno ma anche di edificare opere mirabili come i giardini di Babilonia, Dante ne fa invece uno dei personaggi del quinto canto dell’inferno, la cui lussuria sarebbe stata talmente smodata da spingerla fino all’incesto con il figlio.
Ma dietro la fama di donna crudele, si nasconde una crudeltà subita da bambina che avrebbe portato Semiramide ad essere quello che è. Almeno questa è la visione del drammaturgo spagnolo Calderón de la Barca nella gran commedia «La hija del aire» del 1653 (e della riscrittura che ne è stata fatta ad opera di Hans Magnus Enzensberger), traccia principale della «Semiramis» di Menoventi, ultimo lavoro della compagnia emiliana, presentato in fase studio al festival Kilowatt e ad Es.Terni.
La forte ambivalenza tra vittima e carnefice nel personaggio della regina assira si presta perfettamente alla riflessione sul potere di Menoventi, completamente giocata sul doppio del potente. Un doppio che è rifrazione della condizione di sudditanza (il potere è sempre potere che si esercita “su qualcun altro”, e il concetto di potere si specifica come “la facoltà o l’autorità di agire”), ma anche della dimensione umana, che nell’esercizio del potere al contempo si ipertrofizza e si annulla.
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