«Forever» del collettivo fiorentino Fosca è il tentativo di recuperare il fascino del radiodramma – genere in voga negli anni pretelevisivi, che veniva anche definito laconicamente “teatro per ciechi” – secondo un gusto contemporaneo. E infatti l’allestimento presentato al Festival Inequilibrio di Castiglioncello – contemporaneamente in streaming su Radio Cage – è essenzialmente un allestimento sonoro, una partitura di rumori che si innesta su una drammaturgia di tipo classico, un dialogo tra due donne intrappolate momentaneamente in uno stesso spazio. Pretesto drammaturgico – uno strano black out, un luogo impossibile da raggiungere – ma non solo, perché l’unità di tempo e luogo che ne scaturisce diventa la stessa dello spettatore, chiuso anche lui in un luogo oscuro, e l’esperienza percettiva dei personaggi diventa la stessa degli spettatori.
Gli spettatori, invitati ad accomodarsi su un tappeto, possono intravedere dietro un velo le due performer – Maria Caterina Frani e Caterina Poggesi – sedute alla loro postazione, col microfono davanti e sul tavolo una serie di oggetti per produrre i rumori di scena. Si può curiosare, sbirciare dietro le quinte del radiodramma per così dire, oppure abbandonarsi all’ascolto sdraiandosi – come suggeriscono i cuscini sparsi sul tappeto – e chiudendo gli occhi. O alternare le due percezioni.
Lo snocciolarsi della storia oscilla vertiginosamente dalle banalità di un dialogo quotidiano a una dimensione semi-apocalittica, dal vago gusto ballardiano, che diventa mano a mano la messa in scena – acustica – di una paralisi del mondo, che potrebbe essere allo stesso tempo una paralisi del linguaggio. E difatti, alla paralisi tecnologica e al conseguente sprofondare del mondo in un abisso di oscurità, fa da corrispettivo un dialogo che si avvita su se stesso sulle contrapposizioni stereotipate tra la “sinistroide” Poggesi la “fighetta” Frani – un estensione fuori tempo massimo delle chiacchiere da bar sull’orlo del precipizio. Un’ambivalenza tra l’estremamente quotidiano e l’estremamente inquietante che ritorna anche nella differenza di registro delle due performer, più naturalista la prima, più surreale la seconda.
Tutto questo – è da notare – avviene al buio, cioè in assenza di immagini, che sono oggi il dispositivo retorico per eccellenza della nostra contemporaneità, la copertura perfetta per il flirt tra l’inutilità e il disastro.
[anche su Paese Sera]
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