Unico antidoto al futuro aninimo è la scritta Calvin Klein

Baustelle«È difficile resistere al Mercato, amore mio. Di conseguenza andiamo in cerca di rivoluzioni e vena artistica. Per questo le avanguardie erano ok, almeno fino al ’66. Ma ormai la fine va da sé. È inevitabile». Con queste parole si apre «Il liberismo ha i giorni contati», una delle canzoni di punta del nuovo cd dei Baustelle, «Amen», nei negozi di dischi dal 1 febbraio. Un disco molto atteso dopo il successo ottenuto con l’album precedente, «La Malavita», che non solo ha fatto conoscere al grande pubblico la band di Montepulciano, ma ha anche rivelato le doti di Francesco Bianconi come autore di testi – il disco, infatti, si piazzò immediatamente nella cinquina dei finalisti al Premio Tenco come miglior album della stagione 2006, poi vinta da un mostro sacro come Vinicio Capossela con «Ovunque proteggi».
Il nuovo album – quarto della carriera dei Baustelle – non fa che confermare le capacità di Bianconi di tradurre nei versi delle sue canzoni un lato oscuro della società contemporanea, quello che si annida nell’involuzione dei rapporti umani, sempre più allentati e modellati su prototipi diffusi dai media e dal mercato. E se nei dischi precedenti lo sguardo era indirizzato soprattutto là dove questo fenomeno trova meno resistenza, in una generazione di adolescenti atomizzati, non inermi ma inscritti in un orizzonte contaminato e senza via d’uscita, con «Amen» la critica all’occidente diventa pervasiva e totale – nonostante si tratti di un disco dalle tinte forse meno fosche dei precedenti.
L’umanità che popola le canzoni dei Baustelle sembra vivere una sorta di presente anestetico, una balbuzie dei sentimenti che porta ad assumere la diminuzione del dolore come misura del proprio agire. E quando il dolore in questione non è che il vuoto in cui si avvitano le vite degli occidentali moderni, allora la sua diminuzione si tramuta in compulsiva soddisfazione dei propri desideri. Il cerchio si chiude nella constatazione che i bisogni indotti non sono tanto un sistema che il mercato autoalimenta per vendere merci e servizi; quanto sono l’unico orizzonte in cui poter gridare la propria esistenza, altrimenti anonima. Unico vero orizzonte dell’azione. Come per Monica, la protagonista di «Vita bassa», il cui «unico antidono al futuro anonimo è la scritta Kalvin Klein».
La «catastrofe» vista nella borsa di Dior, nel sesso orale che non eccita neanche più, nei giorni passati nei centri commerciali, è secondo Bianconi tutto quello che resta tra l’incudine del mercato e il martello dei media. È la mutazione antropologica annunciata da Pasolini – vero nume tutelare del disco – che ha ormai avuto il tempo non soltanto di manifestarsi, ma perfino di generare individui che non hanno mai conosciuto i rapporti solidaristici su cui si basava l’Italia rurale,  scomparsa sotto i colpi del boom economico [rappresentata nel disco con gli occhi de «L’uomo del secolo», canzone dedicata al nonno di Bianconi, comunista, disertore dell’esercito nel ’43, che canta il suo addio a una società che non è più in grado di comprendere].
«Oggi siamo in una fase ulteriore – spiega il musicista in un’intervista a Carta – Non solo si è persa la sacralità che caratterizzava quell’Italia, ma è andata scomparendo persino quella specie di sacralità di cui godeva il mito dell’industria e del lavoro. Lì, comunque, esisteva una visione positiva del futuro, una speranza. Ora, invece, viviamo una fase di stagnazione in cui quei valori industriali sono dispersi, ma restano in piedi i modelli che li hanno accompagnati: l’individualismo, la corsa all’arricchimento. Questi modelli, slegati da una visione del futuro positiva, si pervertono creando una società che si avvita su se stessa».
Quello che resta, allora, è il coro degli architetti ricchi di Bel Air e delle vecchie dive del noir della canzone di apertura, «Colombo», dedicata al tenente interpretato da Peter Falk nell’omonima serie tv. Un coro di assassini che, nonostante le ville lussuose e le macchine sportive, uccidono sempre  e solo per avere più denaro e più potere. «La logica spietata del profitto o chissà cosa ci fa figli dell’impero culturale occidentale», cantano nella loro logica di arricchimento compulsivo, che non ha più a che fare con il benessere, ma con la volontà di potenza. O con l’angoscia dell’esistenza. L’unica incrinatura possibile risiede nella speranza che il castello di carte crolli, imploda, portandosi dietro questa gabbia dorata fatta di successo. Il deus ex machina di questa implosione è – ironia della sorte – un poliziotto che fatica ad arrivare a fine mese, che ha le scarpe vecchie e indossa sempre lo stesso impermeabile sgualcito.
Che la società detta “del benessere” generi tutt’altro che benessere, è uno dei punti su cui insistono anche i libri di Michael Houellebecq, che sembra ispirare in più punti le canzoni dei Baustelle. Come per «Dark Room», cronaca affannata delle avventure erotiche di una trentenne alle prese con uno sconosciuto, dove la tensione erotica si annulla nella stanca tristezza di un incontro tra solitudini, impacciato, forse persino ridicolo.
Houellebecq, ne «La possibilità di un’isola», affermava con crudezza che la società davvero moderna è quella che rigetta i fastidi dell’organico non funzionante, e con essi gli individui che ne sono afflitti [come gli anziani, morti in massa nella canicola dell’estate 2003, o i “brutti”]. Resiste e si afferma chi possiede «giovinezza, bellezza forza: i criteri dell’amore fisico», che a ben guardare «sono esattamente gli stessi del nazismo».
Quello che secondo lo scrittore francese caratterizza la dimensione sociale contemporanea, e dunque i rapporti tra gli individui, è la creazione di una serie sempre più vasta di desideri il cui accesso è via via sempre più difficile, spesso irraggiungibile. Immancabilmente, a quel punto il rapporto in questione diventa di natura economica, e si incammina sui binari della violenza e della sopraffazione, appena mitigate dalla contrattazione commerciale.
È insomma l’esclusione il vero tratto distintivo della società basata sul mercato: l’esclusione del non conforme, dell’abietto, del non spendibile in termini di gratificazione e appagamento. Esclusione dal piacere, dall’accettazione, forse persino dall’esistenza stessa. E il tema dell’esclusione, guarda caso, torna più volte anche nei lavori dei Baustelle, incarnato soprattutto dalle figure “oscene” dei barboni che affollano il piazzale davanti la stazione di Milano in «Antropophagus», o nel ritratto struggente del «Corvo Joe» nel disco precedente, abitante del parco spodestato la domenica dalla gente che “luccica” e lo guarda con repulsione.
La conclusione di questo avvitarsi dei rapporti umani in una spirale non più gestibile è potentemente sintetizzata da quello che è forse il ritornello più conosciuto dei Baustelle: «Ed i cantanti dalle radio cantano / Ed ogni anno foglie morte cadono / E le modelle per la strada sfilano / I calendari cambiano / Ed i famosi ridono / E tutto il resto è inutile».

[Baustelle, «Amen», Warner Music, 20 euro]

[da Differenza n°8/2008]

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